Continuiamo a battere il ferro finché è caldo sui Rockets, non quelli made in France con addosso la porporina argento, bensì questi rocchettari vestiti normali, con nessun bellone nel gruppo e proprio zero glamour. Come si conviene da gente di Detroit, città brutta e lavoratrice, freddo porco d’inverno e caldo afoso d’estate; niente gusto per lustrini e pajettes, da quelle parti.
Il disco è il loro terzo di carriera, siamo all’inizio degli ottanta. Al comando delle operazioni sta sempre il batterista, compositore e ispiratore John “The Bee” Badaniek, coadiuvato da due ottimi chitarristi, diversi e complementari, fra cui quello che spicca maggiormente è Jim McCarty, gran manico. Il genere è sempre hard rock (&roll), per forza di cose poco pretenzioso, ma immortale per chi crede in esso. Anche i Rockets son figlioli legittimi di Chuck Berry, come tanti (Stones e Ac-Dc i più fortunati). Nulla si crea, ma nulla suona fuori posto in questo sestetto. C’è tutto, basta farsi piacere il rock’n’roll anni settanta, evoluto dai padri anni cinquanta condendolo qui e là con un po’ di spezie.
“Desire” è lo speranzoso singolo apripista, rock’n’roll breve e compatto, ballabile. Entrò effettivamente in classifica in U.S.A., seppure non ai piani più elevati. La seguente “Don’t Hold On” la apprezzano quelli che ci capiscono di chitarra. C’è un cambio al volo di magnete verso la fine del solo, da quello al manico a quello al ponte, ed una contemporanea gragnuola di note che è da Belle Arti: stende, meraviglia, appaga, fa godere. Ma quanto mi piaci McCarty!
“Restless” non mi dice molto, forse perché si aspetta con curiosità la susseguente “Sally Can’t Dance”, quella di Lou Reed: fatta meglio rispetto a quella di Lou, ma per me è un’ovvietà. Eseguito il compitino Reed, ci si lancia in “Takin’ It Back” che è scolastica quanto trascinante, proprio un’enciclopedia dei licks perenni inventati dal pioniere Chuck Berry, qui snocciolati uno dietro l’altro dai due chitarristi senza il minimo pudore, anzi con gioia scatenata.
“Time After Time” è un… rock’n’roll, l’ennesimo. Ben riuscito, introduce validamente “Sad Songs” che invece è di un altro mondo: pianistica, corale, appoggiata, mesta come da titolo. Ma è un episodio perché arriva “I Want You To Love Me” che è proprio urgente (gliela sta chiedendo…), alla Little Richard, con voce assatanata e i frequenti stop a inchiodare la musica e poi i go a farla subito ripartire, ancor più pressante.
In “Is It True” ci pensa di nuovo la chitarra di Jim McCarty a creare interesse, affrancandola dall’hard rock’n’roll più prevedibile. La chiusura “Troublemaker” è di converso più scura, semi tenebrosa, a’la Steppenwolf di “The Pusher”, con una bella slide dell’altro chitarrista Dennis Robbins (un futuro da country man per lui dopo i Rockets, guarda un po’).
I musicofili fighi direbbero: un disco fuori dalle mode del tempo. Già, il 1980. Ma qual’è il disco più venduto del 1980? Bee Gees? Police? Michael Jackson? Clash? No, quello nero degli Ac-Dc, praticamente i cugini australiani di questi Rockets… C’è una storia, e c’è una retorica, i Rockets sono nondimeno rimasti quasi fuori dalla prima, e del tutto fuori dalla seconda: non erano così tanto bravi, nè furbi, nè fortunati.
Beh, qui siamo nella settimana di piccola retorica per i Rockets from Detroit, Michigan - USA: gliela dovevo.
Carico i commenti... con calma