Non so molto del Rod Stewart recente, la mia conoscenza della sua discografia si ferma al 1972, anno in cui esce "Never a Dull Moment", so solo che da lì in poi si è preoccupato più di rimpolpare il portafogli che di produrre musica di qualità. Però so che fino al 1972, fra la militanza nel Jeff Beck Group, quella nei Faces e la prima parte della sua carriera solista, è stato in grado di fare cose eccelse, potendo fare affidamento su una voce graffiata al limite del rauco estremamente affascinante e caratteristica.

Fra il 1970 e il 1972, da solista, è capace di infilare una tripletta di dischi da leccarsi i baffi, tutti basati sulla stessa formula vincente: mescolare pezzi originali a reintepretazioni di gran classe di canzoni altrui. "Gasoline Alley" è il primo anello di questa catena, completata da "Every Picture Tells a Story" e dal già citato "Never a Dull Moment".

Ad accompagnarlo ci sono i membri dei Faces, ai quali si aggiungono anche altri musicisti, che forniscono alla carismatica voce di Rod un supporto estremamente efficace, in cui a farla da padrone, a parte in un paio di episodi, è il gran lavoro delle chitarre acustiche, che si intrecciano in maniera sempre perfetta, riuscendo a creare molteplici sfumature sonore capaci di rendere l'ascolto molto succulento ed appagante per chi ama un certo tipo di atmosfere. Ma a rendere il tutto ancora più piacevole ci pensano i massicci interventi principalmente di chitarra slide e piano, oltre che di organo, mandolini e archi, che contribuiscono a creare un impasto sonoro denso ed articolato, avente un che di ispirazione "rollingstoniana".

"Gasoline Alley" è un disco che si lascia ascoltare con gran piacere e che scorre con una facilità invidiabile, in cui già dall'omonima opener, in cui gli accordi di chitarra acustica fanno da tappeto per la voce di Rod doppiata da ben due chitarre elettriche, che vengono successivamente coadiuvate anche da un mandolino, viene messo in chiaro che si è di fronte ad un disco di qualità estremamente elevata. Concetto che viene corroborato dalla lunga "It's All Over Now", uno dei primi successi dei Rolling Stones, qui in una trascinante versione in cui piano e chitarra slide sono sugli scudi, ma anche dalle personali rivisitazioni di "Country Comfort", tratta dal monumentale "Tumbleweed Connection" di Elton John, e di "Only a Hobo" di Bob Dylan, dal country-folk sostenuto da un basso martellante di "Cut Across Shorty", impreziosita da un assolo centrale suonato su un violino sporchissimo, e dagli altri due pezzi a firma di Rod, anch'essi a forte matrice acustica, "Lady Day" e "Jo's Lament". E con la chiusura affidata alla elettrica "You're My Girl (I Don't Want to Discuss It)" c'è pane anche per i denti di chi ama il rock più sanguigno e verace. 

Forse non il disco in assoluto migliore di Rod Stewart (i due successivi hanno quel qualcosa in più che li fa raggiungere livelli di assoluta eccellenza), ma comunque un ottimo lavoro, in cui il cantante inglese dimostra di avere una classe invidiabile, figlia di un'esperienza già consolidata nonostante la giovane età, ed una sana spontaneità che forse gli verrà a mancare in seguito.

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