É questa la vita che vogliamo realmente? ...
Prima di scrivere un mio punto di vista sull’ultimo e appena uscito album di Roger Waters: “ Is This The Life We Really Want?”, ho letto la buona e piuttosto descrittiva recensione di Zymmi, quindi premetto che in queste righe che seguiranno non riprenderò alcuno stralcio dei testi del disco e soprattutto cercherò di non fare una semplice descrizione pezzo per pezzo ma di considerare il lavoro nel suo complesso .
La curiosità accumulata è stata realmente molta dati i 25 anni trascorsi da Amused to Death, e soprattutto dopo il Live 8, quando sembrava ancora possibile un ultimo album dei Floyd tutti insieme, le cose però come sappiamo, sono andate piuttosto diversamente… ma evidentemente da questo dato non possiamo prescindere nell’analisi dell’ultima fatica di Waters.
Al primo ascolto non faticano ad emergere vari pezzi che suonano come interessanti corrispondenze sparse nel corso di gran parte della discografia floydiana: da “Meddl”e a “The Final Cut” per intenderci, il tutto con il tipico songwriting di Roger, fatto di parole sussurrate, talvolta rauche altresì sprezzanti (vedi title track) , fino ad intersecare e far emergere la sua voce da sessioni di archi. Un rituale di sovraincisioni, di tracce concept legate, temi che si ripetono e un bagaglio di suoni che è parte fondante dell’epopea dei Floyd, con un netto prevalere per quanto riguarda gli arrangiamenti, di chitarra acustica e piano. Proprio questo netto prevalere del parlato che diviene oggetto (i testi), soggetto (il waters cantante) e quasi sfondo dominante (le innumerevoli voci e dialoghi sovrincisi) alla fine del primo ascolto mi aveva dato l’impressione vivida di un disco in un certo senso nato musicalmente , un pò “menomato” o come minimo "fortemente deprivato". Riascoltando varie volte ho sviscerato questa impressione, analizzando virtù e mancanze del disco.
In primis: il ritmo fortemente compassato dell’album, che su 12 tracce annovera solo tre pezzi un attimo più vivaci (e guardacaso tra i più riusciti: Picture That , Bird in a Gale e Smell the Roses ) certo rende l’ascolto non proprio scorrevole (al posto dei sei minuti di The Most Beautiful Girl In The World avrei preferito qualcosa di un attimo più ritmato ma è opinione personalissima). Secondo punto: le scelte stilistiche degli arrangiamenti (vedi Nigel Godrich) tra il conservativo, con tutta la vasta gamma di citazioni suddette, e un abbozzo di aggiornamento sinth-groove ai nostri giorni che sembra preso a piene mani da “The Vergin Suicides” e/o “Talkie Walkie” degli Air ( in quest’ultimo che è del 2004, guardacaso aveva diretto i lavori lo stesso Godrich). Poi il forte punto di discontinuità con tutto ciò che di precedente c’era stato, ovvero l’assenza di soli, sottolineo di parti solistiche non solo di chitarra, ma anche di veri soli di tastiera (che sia organo, sinth o pianoforte), unito ad un insieme di pezzi con una durata piuttosto standard, in un range tra i quasi due minuti e i non molto oltre i sei . Tutto questo alla fine non può che affermare il potere delle parole, del concept che lega ogni brano e le varie storie qui raccontate, vero valore inestimabilmente aggiunto dell’album, (sviscerarle o citarle sarebbe solo un inutile spoiler) indubbiamente ciò che rendeva Roger unico un tempo dentro i Floyd, viene senza dubbio ribadito nel modo più estremo con questo lavoro: in tal senso la questa sua grandezza è assolutamente intatta.
Ho letto che questo album sarebbe stata la risposta partorita dal Genio visionario dei Pink Floyd in risposta all’elezione di Trump (vedi Muro con il Messico, questione immigrati ecc), sinceramente ascoltando e riascoltando mi sono convinto che sia stato solo un pretesto, sentito fortemente da Roger a livello tematico ma solo un pretesto. Se qualcuno ricorda già dopo il “Live 8” Roger aveva senza troppi giri di parole chiesto a Gilmour e compagni di tornare in studio e di elaborare quello che sarebbe stato l’ultimo disco (ovviamente concept) dei Pink Floyd. Trascorsi 15 anni di esilio forzato (causa sentenze di tribunale) dal repertorio floydiano, nel 2000 con “In the Flash” live della riaffermazione fiera del passato, il nostro Roger ha iniziato una serie di svariati tour in lungo e largo per il mondo, portando in giro sotto il suo nome, il marchio di fabbrica Floyd, con pieno merito e grande riscontro, talmente grande che forse gli suonava male “The Division Bell” come ultima prova in studio della “Sua” Band, figurarsi quando Gilmour e Mason hanno fatto uscire “The Endless River”, andate pure a rileggere le dichiarazioni di Waters di due anni orsono circa, quando uscì quel disco e capirete come “ Is This The Life We Really Want?” in fondo da li in poi sia stato iniziato a concepire.
Il raffronto fatto dopo il primo ascolto era con il disco solista precedente di Roger, ovvero “Amused to Death” , un album davvero coraggioso e interessante da svariati punti di vista, dove Waters andava decisamente oltre lo stile floydiano, dando sfogo a uno scatenato Jeff Beck miscelando come mai prima rock – gospel – blues e classica con sonorità assai originali, ma non era il giusto termine di paragone, perché a mio modesto avviso questo disco solista di Roger Waters è senza tanti giri di parole, quello che lui avrebbe voluto fosse ne più ne meno l’ultimo disco dei Pink Floyd. La tipica scrittura dal costrutto melodico eclettico di Waters, emersa evidente in “Animals” , poi preponderante in “The Wall” e unico filo conduttore di “The Final Cut” (dove già le parti soliste erano state sensibilmente ridotte) qua si impadronisce del tutto, diventa un monolite unico di oggetto e soggetto narrante che si allarga fino allo sfondo, lasciando ad un intersecarsi di richiami sonori floydiani, fungere quasi esclusivamente da precisa e ammiccante cornice di riferimento. Analizzata così potrebbe apparire come un evoluzione ineluttabile, qualcosa di estremo e perfetto che riunisce nella modalità piu pura di canzone (in cui la metrica e la struttura sono al servizio del cantato) un concept album. Forma al servizio della “sostanza”: la voce poliedrica, le parole, le immagini ogni storia raccontata, le invettive, il terrore disorientato, la rabbia...la grandezza tematica e sostanziale é la forza assoluta di questa opera e va riconosciuto, solo Water poteva condurla con la sua sensibilità poetica e talento assoluto a tali altissimi livelli.
Ma in ultima analisi questa "Evoluzione finale" non sembra che il risultato indotto di una serie di circostanze non proprio armoniche. Era proprio questo il disco che realmente volevamo?! E che dopo 25 anni anche lo stesso Waters realmente avrebbe voluto?? Dubito potrebbe affermare il contrario, di fatto appare come la risposta sotto forma di contrappasso all' ultima ufficiale uscita degli altri Floyd ovvero “The Endless River”. Un album quasi totalmente strumentale (sorta di omaggio a Wright e riflessione sulla vita su ciò che è oltre di essa) fatto di 4 suite musicali piuttosto lunghe, stracolme di musica Floyd al 100% come orfane quasi allo stesso livello di parole. Nell unica traccia in cui Gilmour mette la voce "Louder than words" , non é difficile comprendere come si viaggi sul polo opposto rispetto al lavoro di Waters, infatti la filosofia degli "Altri Floyd" viaggia sullo sfondo, abbraccia il paesaggio, la cornice sonora diventa piu forte di ogni parola, e si concretizza nell anima musicale floydiana piu autentica, certo orfana di un reale concept ma tremendamente libera. E qua c é il grande limite di questo ultimo album di "Roger Pink Floyd", l'aver scelto egoisticamente di delimitare il campo musicale, restando quasi sempre sul pezzo, per riaffermarsi come "Deus ex Machina" del Giocattolo nato dalla psichedelia di Barret e diventato la band piu geniale di sempre, grazie ad una irripetibile alchimia di quattro persone... Questa opera di sottrazione alla fine ha tolto un bel po' d'ossigeno e slancio alla sua ultima creazione.
Probabilmente dopo il Live 8 sarebbe stato disposto a lavorare davvero a 4 mani con David e gli altri, forse in quel caso questo disco avrebbe potuto suonare ancora come "Wish you were here" ... supposizioni, ma tramontata quella possibilità abbiamo avuto due "creature" che forse solo messe insieme avrebbero potuto valere a livello musicale e artistico uno dei vecchi dischi anni 70 dei Floyd. E se proprio in pezzi come "Smell the Roses" e "Picture That" si scorgono dei brevi (purtroppo) momenti musicali che iniziano ad avere un certo grado di personalità, paragonabile ai fasti del passato, ecco allora un po' di rimpianto si materializza e quasi sicuramente non era il finale che realmente volevamo, perché la cifra della grandezza dei Pink, stava certo anche nell elevato grado concettuale dei loro album (concept e testi) ma ancor piu nella sublime espressività delle parti musicali e soliste.
“ Is This The Life We Really Want?” tuttavia rimane un eccellente album, dopo 25 anni era lecito aspettarsi qualcosa di più, nonostante ciò merita indubbiamente di essere ascoltato, letto e compreso.
Elenco tracce e samples
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Altre recensioni
Di Zimmy
È un lavoro 100% Waters in cui c’è tutto quello che è lecito aspettarsi dal bassista inglese: furiosi j’accuse contro il marcio della società odierna.
Il messaggio finale dell’album è tanto semplice e apparente banale, quanto riuscito e toccante: l’amore come salvezza, redenzione e rimedio ai mali del mondo.