Lo si annunciava ormai da qualche anno, e finalmente eccolo qua: a distanza di esattamente 25 anni dal suo ultimo (e miglior) album di inediti da solista, Amused to Death, Roger Waters è tornato con un nuovo ed atteso lavoro. L'ultima fatica dello storico concept-man dei Pink Floyd si avvale della produzione nientepopodimeno che di Nigel Godrich e - lo dico subito - è un gran disco.
Chiariamo subito per i più esigenti: non c'è nulla di nuovo. Anzi, praticamente tutto, dall'inizio alla fine, sa di già sentito. E però, al di là della totale mancanza di innovazione (ma ce l'aspettavamo davvero? Non ci credo), è davvero un gran bel disco: non raggiunge i livelli di Amused, ma in compenso è molto migliore sia di quel confuso polpettone che era The Pros and Cons..., sia dell'improbabile pop-rock plasticoso di Radio KAOS. È un disco forte, compatto, potente, che ha molto da dire e quello che ha da dire - come sempre - lo urla senza inibizioni. È un lavoro 100% Waters in cui c'è tutto quello che è lecito aspettarsi dal bassista inglese: furiosi j'accuse contro il marcio della società odierna, fiere prese di posizione politiche, appassionati slanci antimilitaristi, ballate intime e malinconiche, paranoia, rabbia, catarsi e soprattutto grande magniloquenza sonora.
Musicalmente, dicevamo, non c'è niente di nuovo, anzi: stavolta più che mai il disco è un continuo gioco di rimandi-ricicli-riproposizioni di schemi e stilemi già ben rodati, soprattutto nell'ultima produzione floydiana. Anzi, se spesso nei suoi precedenti lavori il bassista sembrava tentare quasi forzosamente di distaccarsi dal Floyd-sound con risultati altalentanti e non sempre confacenti (il blues claptoniano di Pros and Cons, il poppettone ottantiano di Radio KAOS), oggi Waters sembra aver fatto pace col passato e non esita a riproporre pari pari le atmosfere di Animals, di The Final Cut e persino di Wish You Were Here (alzi la mano chi, all'attacco del primo singolo Smell the Roses, non ha pensato immediatamente a Have a Cigar!). E se il riciclo floydiano è chiaro sin dall'intro - che col sottilmente ammiccante titolo di When We Were Young si permette di riprodurre sfacciatamente i battiti cardiaci e i ticchettii di orologio di Dark Side! - c'è però un'importante carattere di distacco che, stavolta sì, per Waters è una novità: la totale e volontaria rinuncia all'uso della chitarra elettrica solista nell'arrangiamento dei brani. Sono presenti ben tre chitarristi nella formazione del disco (Gus Seyffert, Jonathan Wilson e lo stesso Godrich), nessuno dei quali però si produce mai in assoli alla Gilmour, che risultano completamente banditi dalla produzione dei brani. Una scelta coraggiosa, e sicuramente caratterizzante del sound del disco, che si compone sostanzialmente di due tipi di canzoni: ballate lente e malinconiche con chitarra acustica e pianoforte (Deja-Vu, The Most Beautiful Girl, Wait for Her) e pezzi cupi e incazzati coi sintetizzatori tetri e allucinati alla Animals (Picture That, Bird in a Gale, Smell the Roses).
Sul piano dei testi, Waters riesce ancora una volta a non scadere troppo nel facile moralismo o nell'invettiva politica qualunquista. Il bersaglio principale è ovviamente l'odiatissimo Donald Trump, già ferocemente attaccato nei concerti degli ultimi tour (in cui le immagini grottesche e oscene di Trump in versione suina campeggiavano nei megaschermi durante l'esecuzione di Pigs) e al quale sono dirette le parole più dure: nell'acidissima Picture That (con un testo che sembra causticamente modellato sul'incipit di Lucy in the Sky with Diamonds: "Picture yourself as you lean on the port rail, tossing away your last cigarette...") ci si riferisce a lui come "a leader with no fucking brains", mentre nella title-track è "a nincompoop becomes the President". Gli scenari sono quelli delle guerre in Medio Oriente (Picture That), del business dietro la fabbricazione di armi (Smell the Roses, il cui testo cita sarcasticamente Light My Fire), del dramma delle migrazioni (The Last Refugee), dell'innocenza e della bellezza stuprate dalla violenza del mondo (The Most Beautiful Girl). Su tutte le liriche del disco si stagliano potenti quelle della title-track, nata originariamente come una poesia composta nel 2008:
E ogni volta che uno studente viene travolto da un carro armato, ogni volta che una sposa russa viene pubblicizzata per essere venduta, ogni volta che un giornalista viene messo a marcire in una cella, ogni volta che la vita di una giovane ragazza è casualmente sprecata, ogni volta che un mentecatto diventa presidente, ogni volta che qualcuno muore mentre si sporge per prendere le chiavi, e ogni volta che la Groenlandia cade nel cazzo di mare è per via di tutti noi: bianchi, neri, messicani, asiatici [...] formiche... no, le formiche forse no, perché è vero che le formiche non hanno un Q.I. abbastanza alto per capire la differenza tra la sofferenza che provano gli altri e, per esempio, tagliare le foglie, o brulicare tra le guarnizioni della finestra in cerca di un barattolo aperto di melassa. Così, come formiche, siamo semplicemente ottusi: è per questo che non sentiamo o vediamo? O siamo solo intorpiditi dalla realtà televisiva? Allora ogni volta che il sipario cala su qualche vita dimenticata, è perchè noi siamo rimasti impalati, muti e indifferenti: è normale.
Due parole sul trittico finale, Wait for Her/Oceans Apart/Part of Me Died, un'unica suite acustica in tre movimenti, che sorprendentemente conclude il disco parlando d'amore. Ebbene sì, perché il messaggio finale dell'album è tanto semplice e apparentemente banale, quanto riuscito e toccante: l'amore come salvezza, rendenzione e rimedio ai mali del mondo.
Ma quando ho posato gli occhi su di lei, una parte di me è morta: la parte invidiosa, spietata e subdola, avida, dispettosa, globale, coloniale, sanguinaria, cieca, irragionevole e facile, concentrata sui confini e sul macello e sulla pecora, che brucia libri, che demolisce case, dedita ai bersagli uccisi dai droni, alle iniezioni letali, agli arresti senza processo [...] quando ti ho incontrata, quella parte di me è morta.
Che dire per concludere? Un ottimo disco. Chi si aspetta qualcosa di nuovo, magari, rimarrà deluso: qui c'è, né più né meno, il Roger Waters che tutti conosciamo, e che è tornato in grande stile dopo tanto silenzio. E che merita un ascolto attento, anche solo per la passione, la veemenza e la sincerità con cui continua a esprimersi senza peli sulla lingua, da consumato songwriter qual è. Chi ama Waters per quello che è stato dai suoi ultimi lavori floydiani alla produzione solista, sicuramente non rimarrà deluso da questo lavoro: Roger è sempre lui, e - piaccia o meno - ha ancora molto da dire. E ora aspettiamo di vederlo tornare live (il tour è appena partito negli States), con la consueta magniloquenza.
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