Parigi, 2015, Olympia....
L'ex dea rock'n'roll ha occhi aperti/chiusi e chiusi/aperti. I lunghi capelli bianchi e il volto da antica maschera la fanno sembrare uno stregone pellerossa. Qualche nota di piano, un lento lentissimo adagio che accarezza l'anima. Ma fosse solo questo. Il fatto è che l'ex dea è anche una poetessa.
E allora: “Il ricordo cade come crema nelle mie ossa e, anche se ho la volontà, il fuoco è gelido. Trombe, violini, li sento in lontananza e la mia pelle...”... “la mia pelle emette un raggio”. Un raggio? Niente di strano, lo fa anche la musica.
“Elegie” chiudeva “Horses” ed è una specie di gospel, vero Patti? In origine era dedicata a Hendryx, giusto?
“Penso che sia triste, è proprio un peccato, che i nostri amici oggi non possano essere con noi”
“That our friends can't be with us today”...
“Today”
“Today”
Ok Patti, adesso però fermati, hai forse intenzione di spaccarmi il cuore?...
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Corsica, 2004...
Due delfini intorno a una barca. Sembrano tristi e questa è una cosa piuttosto strana, no? I delfini non sono mai tristi.
“This is the end, my only friend”
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Parigi, 2015, olympia
“That our friends can't be with us today”...
“Today...”
“Today...”
Adesso gli occhi sono soltanto chiusi.
Patti fa l'elenco: “James Marshall Hendrix, Jim Morrison, Janis joplin + tutta una serie di nomi che potete ben immaginare. Tra i tanti ce n'è uno che non ti aspetti, quello di Lizzy Mercier...
Lizzy Mercier Descloux, tre nomi, come le contesse.
“Today...”
“Today...”
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Parigi, anni 70
“Meglio una mora alla finestra che una bionda vestita a festa”, così mio padre. E, se non una finestra, un balcone. Come quello che affaccia sul negozio di vestiti e musica di una specie di Malcom Maclaren francese. Il tizio ha l'occhio lungo e quando vede Lizzy ci rimane secco, un piccolo scricciolo sommerso da un incendio di capelli, una specie di enfant sauvage di Truffaut in versione femminile. Del resto cos'è il rock'n'roll se non grumo di giovinezza e splendore in nuce? Così lascia un messaggio sulla bicicletta della fanciulla: “ho un negozio di fronte al tuo appartamento, quindi incontriamoci.”
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New York, fine anni 70...
Quanti scheletri, quanti fantasmi. E tutte “quelle sirene dal sangue sulla coda”. Tutti cantano, tutti suonano, anche se nessuno sa farlo davvero. Del resto quel che conta è essere artisti e, se sei un artista, saper suonare non serve. E poi questa è New York, un circo, una fogna, un calderone di poesia elettrica a quaranta di febbre. Ovunque occhi spenti/accesi, sempre in caccia, sempre in cerca. Lizzy però viene da Parigi. Una cosa che dai, vuoi mettere? Li persino le scoregge profumano di rose.
Quindi fatevi il broncio e le smorfie di questa strana fanciulla ragazzo, fatevi quel bianco e nero perfetto da capish star. Io me la ricordo con la Patti, una era Arthur, l'altra Isabelle. Ed erano, come dire, piuttosto comprese nella parte. Rammenti quella poesia che sussurravano sempre? Come no, certo: “Oh mio bene, oh mio bello, fanfara atroce su cui non vacillo” E poi: “Noi sappiamo donare tutti i giorni la nostra vita intera, questo è il tempo degli assassini”.
Nel giro di qualche anno Lizzy pubblica due album fantastici, “Press color” e “Mambo Nassau”. Il primo un manifesto no wave tutto groove e suoni scheletrici, Il secondo una splendente appendice al mal d'africa dei Talking Heads con molta più gioia che nevrosi. Da un lato la camicia bianca e le “pantofole luminose”, dall'altro la scoperta del colore e una piccola maestrina che balla a piedi scalzi. La voce, in entrambi i casi, è una lallazione iper ritmica, una connessione, un appiglio.
Il terzo album, “Zulu rock”, ancora più africano, vira verso un suono troppo luminoso per le nostre isteriche pazzie di allora, ma, riascoltato oggi, fa quasi l'effetto di un balsamo. E fa niente se “il pianeta nostro per l'allegria è poco attrezzato”...
Prima di tutto questo però c'è un Ep a nome Rosa Yemen, una piccola clamorosa botta di energia Ci sono soltanto due chitarre, la sua e quella di Dj Barnes. Ma non preoccupatevi, bastano e avanzano.
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“Rosa Yemen”
In media res. Subito dentro la cosa. Riff nervosi, aggressivi e concentrici. “Killer stuff”, dice non mi ricordo chi.
Scossa, knock out, vortice al massimo del volume. Nessun caos, semmai una specie di istintivo rigore. “Divno divno uzivam”, dice un tale che si fa chiamare Unatoc.
Il suono è incadescente, freddo, ossessivo. L'atmosfera quasi da performarce artistica. La voce metà urlo, metà spoken word. “Svaki put gledajuci”, dice Aleksander Radenkovic.
La volontà sembra quella di ridurre tutto all'osso evocando una forza elementare che ti spari in piena faccia. “Ho ascoltato questa canzone migliaia di volte”, dice Joaquin Campos.
Il tutto non dura che un attimo. Una volta assestato il colpo cos'altro serve? “Il più lungo e significativo minuto e cinquanta della mia vita” dice Rui Carvalho.
Il brano si chiama “Rosa Vertov”ed è la traccia uno di questo favoloso EP. Il resto, tra interludi schizzati e altri knock out, è faccenda di perigliosa dissonanza e minimalismo assassino. Un matematico e bozzettistico groove urbano sorvolato dal canto infantile di una streghetta punk. Con parole disarticolate che sono significanti impazziti o frammenti di chissà che. Il tutto con la benedizione di Nina dal terzo occhio.
Alla fine son sei brani in tutto e nove minuti appena, giusto il tempo di dire buongiorno. Quindi, se avete intenzione di mettervi a dieta, fatevi questo disco. Contiene musica magrissima e ipnotica che si appiccica ai nervi.
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1988/2003, da qualche parte fuori dal tempo...
E bello non sapere niente e soltanto solamente immaginare. Guardare i tuoi quadri, l'orgia di colore, l'azzurro mare.
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Corsica, 2004...
Il giorno del funerale sull'acqua c'erano petali di fiori. Poi due delfini, apparsi chissà come, hanno accompagnato al largo le tue ceneri. L'altra faccia della dissonanza è una dolce deriva. Adieau...
“Today”
“Today”
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