L’aria è tersa, appena mossa da un alito di vento.
Un filo d’erba tra i denti.
Gambe distese, occhi socchiusi sull’azzurro spalancato di fronte: un mare rovesciato e immobile.
Da lontano il rintocco indolente dei campanacci.
Bovini pezzati solcano un verde brillante: macchie semoventi sulle tondeggianti sagome vellutate dei pascoli.
Il silenzio è percorso dalla sinuosa densità di onde generate dalle corde di una chitarra: un liquido massaggio alla base dei pensieri.
Scie palpitanti e vaporose di un invisibile veicolo sonoro in viaggio verso la sua meta: la buffa conchiglia al fondo della cavità carnosa del tuo orecchio.
Echi di voci sovrapposte e distanti, ricordi impossibili di un oriente impreciso: sogno di un pomeriggio di piena estate.
Intorpiditi i sensi, intorpidito il mondo intorno.
Una sottospecie di beatitudine.
Nella quale galleggiano brandelli di visioni: stati d’animo in forma di suoni.
Sul finire del 2005 Yokota ha dato alle stampe, in collaborazione con Mark Beazley dei Rothko, questo “Distant Sounds Of Summer”.
Che è un lavoro caratterizzato dalla rarefazione, orientato verso un’ambient a tratti naturalistica, bucolica. Nel quale risulta perfettamente funzionale il suono morbido e disciolto delle chitarre di Beazley (che leggo essere il leader di un’atipica formazione di post rock, i Rotkho appunto, che annoverava tre bassisti)
Dieci tracce, in gran parte strumentali, molto evocative. Sospese tra la tentazione descrittiva, che prevede appunto anche l’uso di campanacci, e la dilatazione ipnotica ed estatica. Adatte a sonorizzare pomeriggi affondati nell’indolenza o serate sciolte nella quieta osservazione d’un tempo che sembra in stand by, ostaggio d’una apparente circolarità.
Yokota elargisce suoni stilosi, rare basi ritmiche sempre votate, tranne che in un paio di episodi (dove pare volerla spezzare) ad assecondare la fluidità delle composizioni.
La voce appare raramente, scivolando sulle onde del liquefatto composto sonoro approntato dai due. Ed è quella vellutata, calda e suadente di Caroline Ross, coautrice, nello stesso anno, in compagnia di Rothko, di un altro interessante disco, “A Place Between”.
Un'estate di evanescenza quasi impressionista, quella evocata dal giapponese ed il suo compare.
Ma la “distanza” dei “suoi suoni” dal desiderio di un altrove qualunque non è mai stata così esigua, mentre li ascolto immerso in un afoso pomeriggio di questo giugno cittadino.
P.S.: Ero giunto a Yokota seguendo tracce disseminate in DeBaser ed acquistando quello che alcuni, compreso lui, ritengono essere il suo lavoro più riuscito ed ambizioso, “Symbol”.
Venticinquesimo capitolo di una discografia segnata da una prolificità impressionante, pubblicato nella prima metà del 2005, raccoglieva il frutto di un audace tentativo di coniugare, attraverso l’elettronica, frammenti di oltre due secoli di musica.
Un minuzioso lavoro di cesello aveva consentito al Sig. Susumu di disegnare 13 quadri, con frammenti di musiche di Beethoven, Mussorgsky, Ravel, Mahler, Tchaikovsky Debussy, Philip Glass, Steve Reich assemblati ai suoni prodotti nel suo laboratorio tecnologico. Senza che il risultato suonasse pacchiano o ridondante. E’ viceversa, un disco densissimo ma arioso, a tratti di un’eleganza lussureggiante. Dove la voce, in quel caso di Meredith Monk, (uno dei motivi del mio acquisto) diveniva elemento ulteriore nel paesaggio sonoro. Consigliato (4)
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