[Contiene il commento di Dragonstar]
Se dovessi definire il cammino che i Running Wild hanno intrapreso dal 2012, anno della pubblicazione di "Shadowmaker ", fino ad oggi con una sola parola, sarebbe "redenzione". Scioltosi ufficialmente nel 2009 dal leader Rock N' Rolf – a causa da un rilevante “senso di distacco” in paurosa fase evolutiva – il gruppo rimase inattivo fino al 2012, anno in cui Kasparek decise di pubblicare un nuovo album, basato su del materiale che inizialmente avrebbe dovuto figurare come bonus tracks per le ristampe dei dischi storici, ma che infine fu spavaldamente sfruttato per realizzare quell’obbrobrio sonoro che risponde al nome di "Shadowmaker", ad oggi la più scialba e inutile testimonianza discografica della ciurma Amburghese.
Dopo un tale passo falso, era inevitabile tentare di ritrovare l’ispirazione e il songwriting dei magici anni novanta, o almeno la fermezza compositiva e la modesta efficacia dei primi anni duemila. Questo senso di responsabilità e appartenenza furono parzialmente custoditi in "Resilient" (2013), album che riuscì ad accendere una fioca luce negl’animi dei fans, dacché rievocava – in una minuta scheggia della sua durata – l'emozione di dischi come "Black Hand Inn" o "Pile Of Skulls". A questo punto restava soltanto da chiedersi quando sarebbe giunto il decisivo e integrale recupero della tradizione marinaresca "Runningwildiana…"
Dopo tanto parlare, nell'Agosto del 2016 esce "Rapid Foray", album che già dalle prime impressioni sembra essere la definitiva ripresa di quel processo di restauro iniziato dopo il deludente "Shadowmaker". Una copertina tanto semplice quanto simbolica, un booklet molto interessante, e un singolo lanciato una settimana prima dell'uscita dell'album; "Black Bart" per l'appunto, pezzo di buon auspicio per gl’adepti del combo tedesco, con forti richiami a pezzi come "Black Gold" dal riuscito "Rogues En Vogue".
Il disco gode di una buona versatilità nei pezzi, già dalla canzone che apre l'album "Black Skies, Red Flag" nella quale sembra essere sparita una volta e per sempre la batteria digitale, che aveva tanto contaminato album come "Victory" e "The Brotherhood", mascherata in quegli episodi in "Angelo Sasso". Trovano però spazio, anche pezzi molto statici e ripetitivi come "Stick To Your Guns" e "Hellectrified", prova che Rock N' Rolf non ha ancora abbandonato appieno la via di "Shadowmaker". Ma c'è anche il tempo per una buona strumentale, "The Depth Of The Sea (Nautilus)", che non nascondo, mi ha riportato ai tempi di "Death Or Glory ". Trovano spazio anche pezzi più aggressivi come la titletrack e "Warmongers", che seppur non riportandoci ai tempi di "Black Hand Inn", riescono a lasciare un bel ricordo ed un ritornello in grado di penetrare degnamente i timpani dell’ascoltatore. Ma ciò che ho apprezzato di più in quest’album è la suite finale, "The Last Of The Mohicans", pezzo che, a detta dello stesso Rolf, doveva essere messo in "Shadowmaker", ma che per forze maggiori è diventato parte integrante di "Rapid Foray". Se con "Bloody Island" avevamo constatato che i RW avevano mantenuto il loro approccio a composizioni più sofisticate, questa "Last Of The Mohicans" ne è un’ulteriore prova. Buona l’esecuzione di ogni singolo strumento, con chitarre veramente emozionanti, e con la voce di Rolf che si adatta perfettamente nello stile, e che risuona esattamente come nel 1992, quando fu pubblicato quel gioiello di "Treasure Island".
Parlando personalmente, alla fine dell'ascolto mi sono sentito soddisfatto, perché ho sentito che l'animo dei Running Wild, e soprattutto del loro leader, è stato finalmente ritrovato. Certo, i riff taglienti di "Masquerade" o "Black Hand Inn" non potranno mai più ritornare, e pretenderlo sarebbe anche stupido; ma a consolarci resta almeno un forte e palese ritorno ai tradizionali stilemi della band. Una sola cosa mi rammarica: questo "Rapid Foray" è solo la terza relase dopo la reunion! Intendo dire che se questo disco fosse uscito al posto di "Shadowmaker", oggi non ci troveremmo a fare paragoni col passato. Cerchiamo allora di concentrarci sul presente, su questa valida testimonianza sonora che ci mostra finalmente la vera identità “Wildiana”; e che ci crediate o no… io sapevo che sarebbero tornati sul serio!
Dragonstar:
Eccomi qua! Anzitutto ringrazio Harlan per avermi permesso d’insinuarmi nella sua recensione per concluderla con quest’ampio commento integrativo che tanto volevo esplicare, visto che stiamo parlando di una realtà musicale che mi sta particolarmente a cuore, ossia la mitica epopea sonora di Rolf Kasparek, un uomo che ha saputo dar vita ad un songwriting al retrogusto di acqua salina e di polvere da sparo. Piaccia o no, l’emozione che si respira nei dischi dei Running Wild è unica e particolare. Dotata soprattutto di un lavoro chitarristico azzeccato e sublime, fatto di suoni avventurosi e taglienti, suoni che ci riportano alle scorribande marinaresche del XIII° secolo, ma anche tra cupi e deflagranti scenari bellici dove gli esseri umani si lordano di sangue, sudore, fango e polvere.
Avvertire in parte le succitate sensazioni, in un lavoro come Rapid Foray, è abbastanza appagante. D’altro canto però, non vale neanche la pena sventolare la bandiera del trionfo. A tale proposito vorrei focalizzarmi su ciò che non è stato approfondito nel già impeccabile testo di Harlan: la produzione. Vero che i suoni sono migliorati, ma personalmente non credo molto che sia sparita una volta per sempre la batteria digitale. Vero che ai microfoni di Metallus, Kasparek ha assicurato che “alcune parti di batteria li ha suonati Michael Wolpers” e che effettivamente la produzione ha reso il drumming più sontuoso e tonante; tuttavia, il suono risulta lo stesso fittizio ed eccessivamente digitale. Vero che i filler ornavano le produzioni “Wildiane” già nel periodo d’oro, perciò – a pensarci bene – il nucleo del problema sta da tutt’altra parte, e si presenta con le sembianze di una lamentela collettiva: manca una vera band, ed è giunto il momento di recuperarla, perché un disco di puro heavy/power metal necessita dell’ausilio di una vera sessione ritmica, quella che avrebbe reso il suono più genuino e credibile. Ecco spiegato perché anche le chitarre – per quanto deflagranti e “zanzarose” –, suonino in maniera così artificiale e siano dunque state adattate ai numerosi “suoni artefatti” che crudelmente macchiano questo lavoro.
Se a tutto ciò aggiungessimo anche qualche pezzo sottotono all’interno della tracklist è chiaro che Rapid Foray non riesce ad essere qualche cosa di più che un buon disco. Buono perché la succitata Black Bart riporta davvero al clima piratesco dei bei tempi; buono perché By The Blood In Your Heart è un anthem da cantare a squarciagola, un mid-tempo ornato da cornamuse sintetizzate ma (in questo caso) straordinariamente credibili; buono perché The Depth Of The Sea è la più bella strumentale dai tempi di Siberian Winter , buono perché Last of the Mohicans concreta la perizia “Kasparekiana” nell’osare composizioni più tortuose e prolisse.
In definitiva, Rapid Foray non mette in discussione l’ispirazione compositiva di Kasparek, ma svela un processo di rinascita ancora in fase evolutiva, una resurrezione possibile grazie ad una maggior credibilità nei suoni; una credibilità raggiungibile, non con veri turnisti, ma con una vera band: la formula più classica, semplice ed efficace quando si desidera pubblicare un disco heavy metal.
Harlan & Dragonstar.
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