L’approssimarsi della fine dello scorso millennio coglieva i cinque componenti dei Saga ormai ben oltre la quarantina e con ben dodici album alle spalle (non contando un paio di live ed alcune raccolte fra cui la più recente, “Phase One”, arricchita da ben cinque inediti di studio). Le soddisfazioni non erano certo mancate, con diversi milioni di dischi venduti, ma al contempo era chiaramente maturato il momento di soprassedere definitivamente a certe ambizioni di successo su vasta scala, coltivate fino a quel momento attraverso molteplici tentativi verso generi più commerciali e modaioli, rivelatisi totalmente improduttivi.

Chi si accontenta gode: è giunto il tempo di concentrarsi e lavorare sul proprio prezioso e fedele seguito “da culto”, fonte non proprio di ricchezza ma comunque di squisito benessere, non di vera gloria ma comunque di consolidata stima e gratificante rispetto. Via per sempre dunque le forzature pop, le sbandate grunge, le applicazioni verso la techno, gli sforzi progressive metal e sotto di nuovo, e definitivamente, con l’afflato artistico più sentito e vero della formazione, che è poi quello degli inizi e dei primi dischi (ma anche del più recente, grandissimo “Security of Illusion”, uscito nel 1993): un pomp rock virtuoso ma moderato, brillante e complesso ma accessibile.

Questa restaurazione verso la prima fase di carriera è simboleggiata dal titolo stesso dell’opera (un cerchio completo, che quindi si chiude e ritrova se stesso), dal disegno in copertina il quale recupera l’umanoide/libellula effigiato nei primi tre dischi di carriera, vecchi ormai di vent’anni, ed infine dal logo col nome del gruppo, lo stesso adoperato per il lavoro più gratificante e venduto, il quarto disco “Worlds Apart”(1981). In sostanza si riprende ad alimentare, anche a livello grafico, quell’aura sci-fi così ben accostabile alle atmosfere sonore create dal quintetto.

Da quest’opera in poi, la musica dei Saga non procurerà più sorprese tra un’uscita e l’altra (salvo un paio di avvicendamenti di personale, ininfluenti per lo stile) ed il valore delle singole opere dipenderà solo dal livello di scrittura, dalla resa tecnica, dallo specifico momento ispirativo.

Da quest’ultimo punto di vista “Full Circle” non brilla certo di particolare vena, assestandosi come produzione “media” nella storia della formazione canadese, senza infamia e senza lode. Insieme agli episodi più gustosamente infarciti dei sensazionali giochetti chitarra/tastiere, specialità della casa (“Remember When” in apertura, “Uncle Albert’s Eyes” e la conclusiva “Goodbye”), vi sono alcuni brani che suonano decisamente come scarti o rimasugli del recente passato commerciale/trendista: “Follow Me” e “Don’t Say Goodbye” hanno la stessa atmosfera patinata ed elegantemente farlocca di “Steel Umbrellas”, l’album del 1994 colonna sonora di un serial poliziesco, mentre qui e là affiorano sonorità techno di tastiere e alternative di chitarra.

Un’opera, per concludere, senz’altro decorosa e interlocutoria, un consapevole passo indietro, quasi un rifugio nel proprio consolidato orticello dopo i molteplici viaggi verso mondi rivelatisi freddini e illusori, un serrare le file per ripartire con ciò che si sa fare meglio e con maggiore cuore. Nell’occasione, i fans si adeguano e si accontentano volentieri, pronti ad essere ripagati, nel nuovo millennio, con album sensibilmente più lucidi e consistenti di questo. E così sarà.

Carico i commenti...  con calma