Un intervallo di quattro lunghi anni separa questo nono disco dei Saga dal precedente: non era mai accaduto e non accadrà più nella loro più che trentennale carriera. L’uscita nel 1993 di questa perla assoluta della loro discografia serve quindi a fugare innanzitutto i timori che il gruppo, dopo gli scarsi riscontri dell’incerto “The Beginner’s Guide to Throwing Shapes”, avesse gettato definitivamente la spugna.
Si ha poi il piacere del ritorno della formazione al quintetto “storico”, col rientro dei figlioli prodighi Jim Gilmour alle tastiere e Steve Negus alla batteria, convinti dagli altri tre a riprendere dove ci si era lasciati otto anni prima (alle prese col sesto album “Behaviour”, assai fascinoso ma un po’ troppo lineare e ruffiano per i gusti dei due brillanti ed esigenti strumentisti). Ma la sorpresa autentica è l’incredibile qualità delle musiche, dei suoni e delle esecuzioni sciorinati dai canadesi in questo lavoro: evidentemente l’entusiasmo per il ritrovato punto di coesione, a spese dell’accantonamento degli eccessivi compromessi commerciali ed unito all’ormai notevole esperienza in studio d’incisione che li porta ad autoprodursi stavolta più che brillantemente, concorrono a fare di “The Security of Illusion” una delle pagine più fulgide nell’ampia ed articolata discografia dei canadesi.
Il lavoro di riferimento è il quarto album “Worlds Apart”, quello di maggiore gratificazione sia artistica che commerciale ma quella concezione di musiche, arrangiamenti e soprattutto suoni è ora attualizzata alla luce della maggiore tecnologia degli anni novanta e di un irrepetibile momento di entusiastica forma: “The Security of Illusion” gode quindi e senza dubbio, al di là dei gusti personali in tema di songwriting, del suono più potente e riuscito di tutta la loro discografia. Specialmente la sezione ritmica si ritrova a viaggiare con una dinamica spaventosa: il basso di Jim Chricton non è mai stato così corposo e trascinante, il rullante di Steve Negus si gonfia di riverberi magnifici, quest’album insomma “tira” come un motore da transatlantico ed è una vera goduria ascoltarne le dinamiche infinite in cuffia, od al cospetto di due adeguati diffusori hi-fi.
Il team interno di produzione opera poi una scelta generosa, e radicale, sul suono della chitarra: lo strumento di Ian Chricton viene missato ad un volume abnorme, enorme… in quest’opera la chitarra elettrica è un vero e proprio energumeno che scorrazza a piacimento nel panorama sonoro, facendo a fette qualsiasi cosa gli si pari davanti. Il biondo e paffuto musicista in sostanza riesce a rispondere alla grande a tutta la libertà ed esposizione concessegli, sciorinando il meglio del suo speciale talento: staccati da paura, turgidi e ciclopici accordi a far gemere le valvole dell’ampli, saettanti miagolii in legato, contorsioni “orientali” della leva del vibrato. La sua imprevedibilità negli anticipi e nelle uscite, l’attacco bestiale della plettrata, il suono rotondissimo e definito, il controllo assoluto della distorsione e delle armoniche fanno di questo disco (anche) una lezione universitaria di efficacia di fraseggio e di libertà espressiva su quello strumento così versatile ed emozionante che è la chitarra elettrica.
I picchi della raccolta sono rappresentati, per cominciare, dalla terza traccia “Once Is Never Enough”, stereotipo perfetto della concezione rock dei Saga, qui al meglio della resa sonora e della compattezza di arrangiamento: su di una fluidificante assolvenza di sintetizzatori Negus va a marcare, a colpi mastodontici di rullante, l’accento del pezzo, ben presto raggiunto dai due Chricton; la chitarra di Ian si annuncia con un vero e proprio barrito, mentre il basso di Jim prende a pompare energia come una centrale termoelettrica. Gli staccati di questi tre musicisti vengono brillantemente legati insieme dal mirabile arpeggio, a basso volume e per questo ancor più efficace e insinuante, di Jim Gilmour su di una delle sue macchine Korg. Il canto di Michael Sadler, teso ed ispirato, arriva a completare un quadro estremamente dinamico e potente. Botte e risposte da orbi poi fra chitarra e tastiere nei ritornelli, fino al tripudio di note dell’assolo di chitarra, “caricato” da una fase strumentale collettiva da cui si divincola con gragnuole epocali di ventiquattresimi, per poi librarsi nei superacuti e finire con un vibrato da satanasso: quando la tecnica è al pieno servizio dell’espressività e della grinta.
Il brano che dà il titolo all’album, messo a metà della scaletta, è una ballata semiacustica accorata e fascinosa, con gli argentini rintocchi delle chitarre acustiche a ingentilire la piega malinconica del testo. Fa il paio con l’altra esibizione di intimismo “Alone Again Tonight” che, sapientemente romantica e iper melodica, avrebbe sfondato senza la minima fatica se solo fosse spuntata, così com’è, in uno degli album dei mammasantissima dell’epoca (Clapton, Collins…) nel settore canzone d’amore “adulta”. Ma a noi rocchettari piacciono soprattutto i Saga che corrono alla grande sulle loro tastiere e dietro ai tamburi, e allora meglio convergere verso le ottime “I’ll Leave It in your Hands” e “Day’s Like These”, per finire alla grande con le percussioni lussureggianti, quasi tribali, di “Without You”.
“Security…” è un disco straripante di energia applicata al solito, encomiabile saper suonare che ha sempre contraddistinto questa formazione. Energia positiva e brillante, ben lontana da quella per buona parte impastata, depressa e funerea dell’hard rock che andava per la maggiore in quegli anni, vendendo smisuratamente e annichilendo opere come questa, dai riscontri commerciali appena sufficienti. Personalmente, al tempo, me l’ascoltai fino allo sfinimento, straconvinto di trovarmi al cospetto del capolavoro del gruppo canadese. Oggi, in prospettiva, lo sono ancora… ma senza il rafforzativo stra... diciamo allora che lo considero senz’altro fra i (miei) primi tre favoriti.
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