Fumo rosso negli occhi e ciliegie nella mano destra.

Ascoltare un disco di Salyu è come addentrarsi in un campo di papaveri rossi e apprezzarne la poesia, come lasciarsi accarezzare la lingua da un marshmallow appena penetrato nella cavità orale, sentendone la sua dolcezza, la sua morbidezza e la sua essenza.

La musica di Salyu riesce ad essere semplice ed innovativa allo stesso tempo, con il suo continuo struggente tramutare ad ogni nota. Paragonata, più volte, all'immensa Bjork, questa affascinante cantante e musicista giapponese riesce ad ispirarsi alla sua musa arrrivando a donare la propria anima a canzoni che prendono vita e che, quasi per gioco, si addentrano nella personalità dell'ascoltatore in un gioioso nascondino. La musica diventa, così, passione e gioco, arte e sentimento. Un continuo incrociarsi di sentimenti arty che si protendono sin dal notevole debutto della cantante, il capolavoro "All About Lily Chou Chou" (2000), colonna sonora dello straordinario film omonimo di Shunji Iwai firmata sotto lo pseudonimo Lily Chou Chou, per poi proseguire negli eccelsi "Landmark" (2005) e "Terminal" (2007), fino al greatest hits della redenzione e, cioè, proprio "Merkmal" (2008), indispensabile per conoscere l'artista e apprezzarne i continui cambi di rotta: dall'elettronica, ai toni più jazzy, sino a giungere al folk, al pop e a qualche accenno di blues.

Non siamo di fronte a musica pop: è una sorta di connubio di immediatezza e complessità che trova nell'affascinante incipit "Platform" (inserita anche nella colonna sonora del thriller "Metro Ni Notte") il suo punto di non ritorno, per proseguire poi con altre incantevoli gemme, come la calma sincopata di "I Believe", sofferta e dolente ballata elettronica che fa salire rapidi brividi sulla pelle, come formiche che vogliono cibarsi di emozioni. Un lampo nel ciel sereno e un vortice di sospensioni a mezz'aria. Sospiri che vengono direttamente dal cuore che si confondono fino al liberatorio grido finale su chitarre elettriche che si rincorrono e sul tuonare di una batteria che tocca l'atmosfera, facendo di "I Believe" un pezzo di indubbio valore, volteggiante come una farfalla di color lilla che danza tra i fiocchi di neve.

E "Landmark", favolosa introspezione con toni da preghiera che passa dal sussurro alle grida, su un finale che, dopo il gelido intercedere del bellissimo incipit, termina in un rock incisivo e poetico. "Name", talmente sommessa da emozionare con violini che si intrecciano e una voce sempre emozionante.

Con la bava alla bocca, le note scorrono soavi, si rincorrono nella mia stanza e io, al centro di essa sul pavimento di marmo bianco a gambe conserte e assorto nei miei pensieri, mi lascio sopraffarre dalle note magnifiche e sento le mie labbra profumare di mirtilli, mentre parte "Tower", allegra e vivace elegia su tintinii e percussioni che si accarezzano e amroeggiano. Un grido di vita contro il cielo notturno e la sopraffazione del desiderio di tagliare l'oscurità con un taglierino argenteo sulla spirale sonora di "Valon", ballata che intreccia desideri sonori di immensa intensità a scatti di hip hop sulfureo e grezzo, ma sorprendentemente d'efficacia.

A concludere il cerchio la fascinosa "Glide", il pezzo minore dell'album d'esordio, ma senza dubbio una canzone non priva di fascino e con quell'essenza calda e ammaliante della miglior Salyu,  poliedrica e bellissima dea dell'etere e degli astri, con la pelle che profuma di fragole e il sorriso di pancake.

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