Temo che invecchiare sia una fregatura.

E cos’è che frega? Che sia il constatare il restringimento, graduale ma inesorabile, delle nostre possibilità nei confronti della vita? Possibilità del nostro corpo, possibilità delle strade da intraprendere, possibilità delle cose in cui credere.

Il Sommo Faber diceva “…Vola il tempo lo sai che vola e va, forse non ce ne accorgiamo ma più ancora del tempo che non ha età, siamo noi che ce ne andiamo…”. Andarcene dove? Là, dove tutto è rimescolato. Andarcene da dove? Dalle possibilità.

Credo che le opere di Beckett siano l’esperienza decisiva nel teatro del ‘900. Personaggi assurdi come in fondo lo siamo noi (nessuno escuso), situazioni grottesche come quelle con cui abbiamo a che fare ogni giorno in questo bizzarro Carnevale che chiamiamo vita.

Sul finire della carriera, Beckett compose drammaturgie sempre più spoglie e rarefatte, i dramaticules: spettacoli brevissimi per un singolo attore (o addirittura per una singola parte del corpo di un attore) in cui la potenza della sua poesia era restituita ad un grado di concentrazione e precisione quasi mistica, ricordando in qualche modo (per profondità, lacerazione e Verità) quei brevissimi racconti del Kafka più “evangelico”.

Rockaby” (“Dondolo”) è uno dei suoi dramaticules.

Sulla scena una debole luce illumina una donna prematuramente invecchiata che oscilla su una sedia a dondolo, non c’è altro.

Ci saranno quattro serie di dondolii intervallati da altrettanti silenzi in cui la donna, dal vivo, dirà soltanto “Ancora”.

Il suo viso, seguendo l’oscillazione, passerà alternativamente dalla luce al buio e durante le oscillazioni la sua voce registrata, come uno stream of consciousness di joyciana memoria, racconterà (in terza persona) la sua storia, o meglio la storia delle sue speranze ed emozioni.

Dio mio, cosa dice quella voce!

Una voce fioca, sconnessa, selvaggiamente vitrea. Eppure perfettamente lucida, perfettamente conscia.

Il Tempo è finito e lo Spazio si è richiuso sopra di lei, niente è rimasto se non abbandonarsi a quella sedia che presto la dondolerà via. Sola e dimenticata.

L’Esistenzialismo di Beckett è feroce, lancinante ed il suo pessimismo è per molti insostenibile, ma, a ben guardare, ha l’effetto di un antidoto, di una purga.

Parla di alcuni aspetti della vita per quelli che sono e, mettendoceli faccia a faccia, sentiamo di essere tutti parte di questa “cosa” che nessuno di noi ha scelto e a cui nessuno di noi può sfuggire.

Proust trovava in Dostoevskij dei “pozzi incredibilmente profondi, ma su alcuni punti isolati dell’animo umano” e “una tetraggine primitiva che i discepoli rischiareranno”; credo che se avesse visto una pièce di Beckett avrebbe pensato la stessa cosa.

Non riesco a dimenticare quella voce: “…dondolala via, dondolala via”.

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