Cuccìa: l’apoteosi dell’identità culinaria

“Per santa Lucia la iurnata allonga un cucciu di cucia, ni lu iurnu di Natali allonga un passu di cani”

INTRODUZIONE

Alla base di questo studio vi è l’analisi dell’aspetto sociale e culturale della pietanza conosciuta come ‘’cuccìa’’ e delle sue variazioni antropologiche all’interno del contesto siciliano. In particolare, si parte da un inquadramento storico del piatto e della festa che lo rende protagonista, dai tempi antichi fino ai nostri giorni. Tale analisi permette un quadro estremamente variegato che offre numerosi spunti di riflessione sul versante sociale, culturale e antropologico.

Le motivazioni di questo scritto sono di duplice natura: il principale movente, risiede nella profonda relazione con la nostra cultura, di cui affermiamo prepotentemente l’importanza e l’attualità, e, in secondo luogo, l’interesse nei confronti del valore socialmente simbolico che risulta avere il piatto in questione, come chiaramente emerge dalla nostra indagine sul campo.
L’obiettivo, per l’appunto, è proprio quella di fornire al lettore una chiara e approfondita visione di quello che rappresentava ieri e che rappresenta oggi ‘’La Cuccìa’’, di come questa pietanza sia in grado di affermare lo sviluppo diacronico a cui ogni giorno viene sottoposta una determinata cultura in cui, inevitabilmente, il cibo ne è un fattore determinante e un indiscutibile protagonista. Per poter fare ciò, è stata condotta un’indagine telematica ricorrendo all’ausilio di brevi interviste che vedevano come campioni diversi individui, le quali ci hanno concesso un raffronto che mette in risalto modi diversi di intendere una stessa cultura e uno stesso piatto.

CUCCIA E RELIGIONE

Origine

La cuccia è da sempre considerato il più importante fra tutti i dolci devozionali della pasticceria italiana, in particolar modo quella meridionale dove regioni come la Sicilia, Calabria e Basilicata hanno prepotentemente subito l’influenza dell‘egemonia greca in svariati ambiti soprattutto sociali, culturali e religiosi essendo state in passato colonie nell'VIII secolo a.C.

La prima testimonianza di cuccìa, infatti, la troviamo in Grecia dove veniva consumata come cibo rituale concernente la Commemorazione dei defunti. Successivamente si diffonde seguendo due direttrici, verso i paesi dell’Europa orientale che ricevono la religione greco ortodossa, e verso le regioni dell’Italia meridionale, dove l’usanza si estese alla festa di alcuni santi e a qualche ricorrenza laica di carattere paganeggiante.

Cuccia nell’Italia meridionale: Calabria, Basilicata e Sicilia

In alcune zone della penisola italiana essa è legata alla figura di santi o commemorazioni come a Tolve, Brindisi di Montagna, Potenza dove è propria della Commemorazione dei Defunti, assumendo così, secondo l'uso orientale, l’aspetto di pasto funebre. Riporta a tal proposito Raffaele Riviello in Costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino: «In tutte le famiglie agiate sul fuoco stava il caldaio pieno di cuccìa (forse concia), cioè miscela di grano, granone e legumi cotti, per darla in limosina a quanti si presentavano a chiedere la carità innanzi all'uscio. Ed i poveri ne empivano più volte la sacchetta, da averne per una settimana. La commemorazione dei morti era quindi per i poveri giorno di abbondanza e di festa; per i credenti ricordanza di pietosa leggenda; per i defunti un lampo di vita, di quiete e di fugace peregrinazione nella terra natia» […]

Sempre vicino Potenza, più precisamente nel comune di Pignola, per esempio, sembra che un tempo la cuccìa fosse preparata esclusivamente con grano, granturco, ceci, lenticchie e cicerchie da alcuni questuanti, per poi essere distribuita ai poveri. Anche Giuseppe Pitrè, -noto e importante ricercatore nonché studioso di tradizioni popolari siciliane, precursore degli studi folklorici in Italia-scrive che «fino al secolo passato (sec. XVIII, n.d.r.) in Castronuovo, Montalbano ecc. si faceva la penitenza, in omaggio a San Biagio, di non mangiar altro che coccìa. Lo stesso facevano - aggiunge il folclorista - per S. Antonio Abate, fino al 1793, nella «terra di Burgio» coloro che erano travagliati dal mal di scabbia.

A Platì, in provincia di Reggio Calabria, la cuccìa compare nella festa di S. Nicola. Muro Lucano, Picerno e Tito si distinguono invece per averle attribuito funzione di “medicina preventiva”, in quanto, se consumata il 1° di maggio, evita la penetrazione di moscerini attraverso il foro dell'ano o dei genitali.

Molto sentita è inoltre l’usanza di mangiare cuccìa per S. Antonio nel Siracusano, a Canicattini, Palazzolo, Solarino, Sortino, Priolo Gargallo. In quest’ultimo paese, a sottolineare il patronato del Santo sugli animali domestici, è consuetudine buttare ai passeri la prima mestolata, gesto simbolico col quale forse si crede di alleviare la loro fatica nella ricerca del cibo in quei rigidi giorni invernali. Aggiungiamo che uno studioso moderno, Carmelo Trasselli, sostiene che, in Sicilia, «in origine la cuccìa doveva essere nutrimento tipico della famiglia pastorale seminomade, che evitava di caricarsi di un centimolo»

Sempre in Sicilia il consumo di questa attività produttiva è legato alla figura di Santa Lucia (mentre in alcuni paesi Sicilia la ritroviamo legata ai culti di S. Biagio e di S. Nicola). L’usanza di mangiar cuccìa il 13 dicembre, festa di S. Lucia, protettrice della vista si inserisce in quel complesso di riti e miti popolar-cristiani che abbraccia tutta, o buona parte, dell’area.

Il Mito di Santa Lucia

Il 13 Dicembre si ricorda, in Sicilia, Santa Lucia (Siracusa, 283 – Siracusa, 304), martire cristiana sotto Diocleziano e patrona della città di Siracusa, città sua natale secondo l’agiografia. Per la derivazione del suo nome dal termine latino “lux, lucis”, la Santa ha da sempre avuto il patronato sulla “vista” (la luce degli occhi). Erroneamente si è pensato che la martire cristiana fosse protettrice della vista in quanto durante la sua vita vi fu un momento, probabilmente durante le torture subite, in cui si strappò gli occhi.

Si dice che Santa Lucia sia stata siciliana d'origine, nata a Siracusa in una famiglia nobile, ricca e cristiana. Desiderò dedicare la vita a Dio e donare le sue ricchezze ai poveri, ma durante la persecuzione di Diocleziano, un soldato romano, tentò di rapirla. Dato che la giovane oppose resistenza, il soldato la denunciò alle autorità perché cristiana, perciò Lucia fu arrestata, torturata e uccisa. Anche se queste storie tradizionali non hanno un fondamento storico attendibile, la sua relazione con Siracusa, oltre all'esistenza di un culto primitivo connesso al suo nome, è ben certa. Un'iscrizione del IV secolo che parla della morte di una fanciulla chiamata Euskia il giorno di Santa Lucia, esiste ancora a Siracusa. Lucia era venerata a Roma durante il VI secolo, come una delle più illustri vergini martiri che la Chiesa celebra. Il suo nome è incluso nei canoni del rito romano e ambrosiano e si trova nei più antichi sacramentari romani, nei libri liturgici greci, e nel calendario di marmo di Napoli. Le sono state dedicate chiese a Roma, Napoli e anche a Venezia. In Inghilterra due chiese antiche sono state intitolate in suo onore, e sicuramente la santa era conosciuta già dalla fine del VII secolo. Sant’Adelmo, vescovo di Sherborne (festa è il 23 maggio), la celebrò in prosa e in versi, anche se si basò su fonti spurie.

Anche se la realtà storica è un’altra; in Sicilia il culto di Santa Lucia si sovrappone e sostituisce il preesistente culto pagano di Demetra- Cerere, dea delle messi e, quindi, del grano che in epoca cristiana fu sostituita da S.Lucia . l’associazione Lucia – Luce – 13 dicembre trova un suo perché in una tradizione ben più antica, risalente agli antichi rituali pagani che si celebravano per propiziarsi il successivo arrivo del sole che corrisponderebbe al 21 dicembre, solstizio d’inverno (Per l’appunto si considera che gradualmente, dal giorno di Santa Lucia, la giornata si fa sempre più corta e quindi la luce va a diminuire, fino a quando arriva il giorno di Natale dal quale le giornate iniziano ad allungarsi nuovamente).

Nell’iconografia tradizionale, Santa Lucia viene raffigurata con delle spighe nel braccio sinistro e nella mano destra una coppa con i suoi occhi o a volte un fuoco. Per associazione di immagini e soprattutto per il contesto che vede soggetti principali la luce (solare) e il grano che in qualche maniera sono legati per natura vitale, la santa cristiana potrebbe essere benissimo la sostituzione cristiana della figura della dea Demetra, che veniva appunto raffigurata con spighe e una fiaccola tra le mani e dalla quale doveva dipendere appunto il ritorno della luce, appunto solare, e il ritorno quindi dell’abbondanza delle messi (il fatto di mangiare obbligatoriamente grano e non pasta e carne doveva essere un rito propiziatorio e un modo per ringraziare la dea greca).

A questo riguardo è spiegabile il perché durante la festa di Santa Lucia si mangi proprio la “cuccìa”.

Probabilmente grazie al suo nome, che suggerisce la luce e la purezza (dal latino lux = Lucia), nacquero diverse leggende su di lei. Tra le più note ricordiamo quelle di Siracusa e Palermo.

Santa Lucia a Siracusa

Narra una leggenda che durante una di quelle che carestie che afflissero la Sicilia nei secoli passati, la popolazione siracusana, giunta ormai al limite della sopravvivenza, impetra la sua santa patrona. S. Lucia, non indifferente alle richieste di aiuto dei suoi concittadini, provvede miracolosamente a dirottare in porto alcune navi cariche di grano. La notizia si diffonde in un battibaleno, e ognuno può così portare a casa la sua razione. Ma tanta è la fame che il grano viene cucinato nella maniera più semplice possibile. Di un prodigio simile, avvenuto nel 1763, son testimonianze le Memorie del Capodieci. Scrive l’annalista siracusano che il 9 di gennaio di quell’anno, mentre si teneva in Duomo l’omelia per commemorare l’anniversario del terremoto del 1693, al predicatore uscì di bocca che a far fronte alla penuria di viveri che affliggeva da mesi la Nobile città di Siracusa poteva provvedere S. Lucia col mandare un bastimento carico di grano. Il miracolo si avvera puntualmente: il giorno seguente giungono in porto non uno ma ben cinque legni.

Il fatto storico ci è stato tramandato da Giuseppe Capodieci nelle Memorie di S. Lucia che così annotava: «Occorre in quest'anno (1763) una grande carestia sino al 9 gennaio, in cui suole esporsi il Simulacro di S. Lucia, per la commemorazione del terremoto del 1693. Nel farsi al solito la predica esce di bocca al predicatore che S. Lucia poteva provvedere al suo popolo col mandare qualche bastimento carico di grano. In effetti, il giorno dopo, arriva dall'Oriente nel porto una nave carica di frumento e sul tardi un bastimento, che era stato noleggiato dal Senato; poscia un vascello raguseo, seguito ancora da altri tre, sicché Siracusa, con tale abbondanza che appare a tutti miracolosa, può provvedere molte altre città e terre di Sicilia. Il padrone di una delle dette navi dichiarò che non aveva intenzione di entrare in questo porto, ma vi fu obbligato dai venti e seppe che era in Siracusa dopo aver gettato l'ancora; aggiungendo che, appena entrato in porto, si era guarito di una malattia agli occhi che lo tormentava da qualche tempo».

Il racconto dell’analista siracusano, quattordicenne all’epoca dei fatti narrati, si ferma qui, ma la leggenda, presente e fatta propria da altre città di Sicilia, va oltre e aggiunge che le navi furono prese d'assalto e ognuno poté portare a casa la sua razione di grano, cucinandolo, per mancanza d’ingredienti, nella maniera più semplice;
E poiché era il 13 dicembre, la popolazione decise all’unisono che da allora in poi si mangiasse, ogni anno in quel giorno, solo cuccìa e legumi.

Santa Lucia a Palermo

Nella città di Palermo, la storia è analoga, sempre il 13 dicembre si celebra la Vergine siracusana, si ricorda un vetusto avvenimento, che la Santa implorata dai palermitani esaudì facendo arrivare nel porto un bastimento carico di grano.
I palermitani stretti nella morsa della fame da diversi mesi di carestia, non molirono il grano per farne farina, ma lo bollirono, per sfamarsi in minor tempo, aggiungendogli soltanto un filo d’olio, creando così la cuccia.
Da quella volta i palermitani specialmente in ambito popolare, ogni anno per devozione ricordano solennemente l’evento, rigorosamente ricorrono all’astensione per l’intera giornata dal consumare farinacei, sia pane che pasta, si preferisce mangiare riso, legumi e verdure, questi ultimi due alimenti ci riferisce il Pitrè che anticamente in questo giorno erano le ragazze palermitane che per venerazione se ne cibavano e non doveva mancare la cuccia, questa tradizione era dovuta alla preservazione degli occhi incantevoli.

Nel palermitano, la “cuccìa”, così come la si consuma oggi, ovvero grano ammollato e lessato condito con ricotta e cioccolato fondente veniva cucinata nell’antico monastero delle monache benedettine dedicato proprio a S.Lucia a Palermo, nell’odierna Via Ruggero Settimo. A differenza di quanto appena detto, la versione dolce era un cibo privilegiato, poiché il costo delle materie prime – specialmente lo zucchero - li rendeva inaccessibili al popolo, infatti veniva preparata prevalentemente per il clero e la nobiltà dalle mani delle suore.

Si noti come le contaminazioni religiose e culturali hanno inevitabilmente fatto sì che la ricetta originaria si sia modificata nel tempo con tantissime varianti nonostante sia rimasto inalterato l’ingrediente primario, ossia il grano considerato cibo propiziatorio, simbolo di vita e fertilità.

Scevro da qualsivoglia sentimento religioso la festa di Santa Lucia è comunque un importante evento che nel substrato folclorico rappresenta un’evidenza di carattere puramente vitale. Quando ancora il popolo era soggetto alla natura e quindi lavorava per la terra, la festa di Santa Lucia rappresentava un periodo cruciale affinché il ciclo del grano riprendesse nuovamente il suo corso a cui in qualche maniera era legata la sopravvivenza stessa delle famiglie contadine.

Cuccìa come portatrice di significati: la Sagra di Pietraperzia

Il giorno di Santa Lucia, che cade il 13 Dicembre, a Pietraperzia, un comune vicino Caltanissetta, viene festeggiata la Sagra di Pietraperzia. Abbiamo avuto l’opportunità di parlare e di confrontarci con il governatore della confraternita “lu Signuri di li Fasci” il quale si occupa anche della gestione e dell’organizzazione della sagra. Quest’ultima non è una tradizione antica ma viene più equiparata, per l’appunto, ad una sagra e nasce per la prima volta tra il 1993 e il 1994, quindi avrà all’incirca 25 anni. Inizialmente non aveva un significato marcatamente presente, ma lo ha acquisito nel corso degli anni proprio grazie al consumo di questo alimento locale che ha attribuito valore alla località e ha permesso alla sagra stessa di acquisire un significato prima assente.

E’ cominciato tutto per iniziativa del parroco del posto che propose la condivisione della cuccìa per creare un momento diverso dopo la processione. Inizialmente si cominciò con la preparazione di una ventina di kili di frumento, per un assaggio per la comunità, fino ad arrivare a prepararne 150 kg per l’intera comunità che la sera, a seguito della processione, si recava e si reca tutt’oggi in piazza per assaggiarla e gustarla. La versione in questione è quella salata i cui componenti sono rispettivamente 4/5 di frumento e 1/5 di ceci, conditi molto semplicemente con olio, sale e pepe.

La sagra si articola fondamentalmente in due momenti: la mattina e la sera; durante il giorno (che va dalle 5 del mattino a mezzogiorno) gli uomini si occupano di cucinare la cuccia che prevede la cottura del frumento in dei calderoni; ricordiamo che sia essa salata o dolce, la preparazione della cuccìa prevede l’ammollo del grano che va lavato e risciacquato più volte prima di essere messo a cottura. La sera, al termine della funzione, viene distribuita ai fedeli che sono presenti, ma non solo, essa è infatti oggetto di interesse di tutta la comunità che durante il pomeriggio e la sera si recano sul posto per consumarla o per riporla in contenitori per farne scorta da portare ai familiari o agli ammalati, impossibilitati a partecipare all’evento. Ciò che rende particolare la sagra di Pietraperzia è che la preparazione della cuccìa spetta agli uomini, e non alle donne, che durante un bicchiere di vino e l’altro, si alternano nella preparazione di questo piatto tipico. Il signor Giuseppe, governatore della confraternita, ci ha rivelato, infatti, che l’iniziativa è partita proprio dalla confraternita che è prevalentemente maschile, e così si fa ancora oggi. Questo risulta essere un momento molto importante per i confrati, i quali sono coinvolti in una partecipazione collettiva che consiste nell’atto di mescolare continuamente i calderoni per evitare che il frumento bruci all’interno. E’ un sottile ma sostanziale gesto che ci permette di comprendere come questo cibo, e la preparazione che vi è alla base di esso, funga da momento di comunione, ma di come soprattutto sia una forma di partecipazione sociale.

L’affluenza è rimasta sostanzialmente costante ed elevata ed è frequentata da grandi e piccini, costituendo una fascia d’età abbastanza variegata ed eterogenea.

A quanto pare, però, la sagra oggi ha perso un po’ della sua valenza religiosa, poiché non è una festa, tra quelle locali, particolarmente sentita. Vi è maggiormente l’interesse da parte della chiesa di svolgere la processione ma, da parte della comunità è più partecipata la distribuzione della cuccìa che la valenza simbolica religiosa in sé. Ma allora perché continua ad essere fatta ancora oggi? La risposta è che gli abitanti di Pietraperzia amano questo giorno e amano consumare questo cibo perché essa mantiene viva la tradizione e tiene unite le persone e le famiglie rappresentando un vero e proprio momento di aggregazione, unione e condivisione…d’altronde Mary Douglas affermava che le radicate tradizioni culinarie siano tra le più resistenti al cambiamento. La tradizione della cuccìa nasce a casa, è un piatto “familiare” ma veniva, e ancora oggi viene, distribuito alla gente; essa è prioritariamente destinata alla condivisione con gli ‘altri’, soprattutto con i poveri, i quali, in una comunità sono delle figure non del tutto integrate al corpo sociale. Ignazio Buttitta, nel suo libro da cui abbiamo più volte attinto spunti interessanti e stimolanti, ci ricorda che ‹‹non è casuale, né spiegabile solo con motivazioni caritatevoli ed esigenze redistributive, che siano i poveri ad essere invitati presso le tavole›› ( I. Buttitta 2019 pagine 76). La festa di S.Lucia ha luogo in un periodo dell’anno di massima carestia, in cui sono esaurite le scorte invernali ma il nuovo raccolto è prossimo a venire; e per poter assicurare e garantire un raccolto abbondante bisogna fare affidamento all’intervento divino, favorito dall’offerta alimentare ai poveri.

Grazie alla preziosa testimonianza del signor Giuseppe abbiamo compreso quanto “cibo e comunità siano due aspetti inscindibili” così come sostiene Carla Barzanò, dietista ed esperta in didattica dell’educazione alimentare. In un suo interessantissimo articolo la giornalista precisa che - Siamo programmati biologicamente per entrare in relazione con la comunità e l’ambiente che ci circonda. Basti pensare che già nella fase di sviluppo che precede la nascita, durante la vita intrauterina, siamo in grado di conoscere e memorizzare alcune caratteristiche del cibo che la comunità in cui viviamo ha selezionato, attraverso gli aromi e i gusti trasmessi dal liquido amniotico materno. Una trasmissione che prosegue, poi, durante l’allattamento e lo svezzamento predisponendoci a favorire e apprezzare il cibo che ci circonda -

Sebbene un bisogno primario, l’alimentazione diventa a tutti gli effetti comunicazione attraverso cui un gruppo, per l’appunto, trasmette la propria identità etnica, sociale e culturale. Possiamo quindi affermare che, al contrario di quello che sostiene Valeria Trapani, la quale afferma che “il cibo genera comunicazione ma contemporaneamente erige barriere”, in questo caso la ricerca, la raccolta e la preparazione della cuccìa, come si evince dalla conversazione con il signor Giuseppe, è un’attività dal forte valore simbolico, sociale e culturale che unisce le persone e afferma l’alleanza tra i partecipanti.

Barrafranca

Situazione analoga la troviamo nel comune di Barrafranca in provincia di Enna.

Si festeggia la Santa, con tradizioni lunghe più di un secolo, che trovano spazio nelle tradizioni popolari della vigilia: ossia del 12 dicembre. Fino agli anni ’60 la vigilia della festa, dopo la messa vespertina, usciva in processione dalla chiesa Maria SS. della Stella uno stendardo con un’effige della Santa, su cui era appesa una reliquia. Dopo il Concilio Vaticano II questa processione, come tante altre, fu soppressa.

La sera del 12 dicembre venivano e vengono bruciati i “burgia”, ossia i falò. “Burgio” deriva dal termine dialettale ‘mburgiare ossia l’atto che, una volta, facevano i contadini di ammassare la paglia, da conservare per l’inverno. Secondo gli anziani u burgiu rappresenta la Santa che bruciò tra le fiamme. Infatti, un’antica tradizione vuole che Lucia si trovasse tra le fiamme ardenti e poi, per miracolo, sia rimasta illesa. Simboli di purificazione, i falò hanno assunto un ruolo preminente nelle feste religiose, retaggio di un antico pensiero pagano che vedevano nella loro luce e nel loro calore, il mezzo per schiacciare i demoni, infestanti la realtà umana. Alcuni invece sostengono che le fiamme sprigionate dei falò ricordino i fuochi che i siracusani accesero, lungo le strade, per cuocere il grano.

Per saperne di più abbiamo avuto il piacere e la possibilità di parlare con il signor Giuseppe La Rosa, barrese di origine che è a capo dell’associazione AVIS di Barrafranca, che si occupa da circa 20 anni della distribuzione della cuccìa durante la festa del 13 dicembre: <<I burgia non sono altro che degli accatastamenti di legna di olivo che venivano raccolti dai ragazzi più giovani del paese. Si parte da una base rotonda molto larga che si chiude in un apice molto ristretto che viene ricoperto con della paglia e sopra quest’ultima vengono posizionati pupazzi, oggetti vari o anche alimenti.>>

Dalla testimonianza fornitaci dal signor. La Rosa possiamo evincere come in passato i burgia siano stati elemento di forte competizione tra i vari quartieri del paese: << Ogni quartiere del paese costruiva il proprio burgia che doveva differenziarsi soprattutto per bellezza e altezza, in tutti i quartieri c’era molto lavoro soprattutto tra i ragazzi che si svegliavano con le luci dell’alba per accaparrarsi la legna migliore. Molti ragazzi facevano la ronda per proteggere il burgio, vi erano dei veri e propri squadroni per evitare agguati visto che solitamente il burgio si accendeva verso le 20:00. Capitava infine che i quartieri tra di loro limitrofi si coalizzassero>>

Ricorda inoltre come aldilà di ogni competizione la costruzione e l’accensione dei burgi era simbolo di unità, coesione e partecipazione: << Ai tempi quando venivano accesi i burgia creavano coesione e tutto il paese partecipava all’accensione del burgio che rimanevano fino a tarda notte sino allo spegnimento di quest’ultimo. Anni addietro quando il burgio era carbonizzato non avendo riscaldamenti a gas o metano venivano usati i cosiddetti “scarfatura” degli scaldini o delle conche per prendere tutta la carbonella che veniva usata per riscaldare le abitazioni. Oggi con la presenza dei tubi di metano nei centri urbani sotto l’asfalto la costruzione dei burgia è vietata, esiste una sola zona, la zona Grazia, vicino la Chiesa della Maria Santissima delle Grazie dove vicino un campetto di calcio allestiscono questo burgia.

Per quanto concerne invece la distribuzione della cuccia bisogna rendere merito all’ Avis in quanto da quando è nata, nel 2002, ha riportato vigore e vitalità tra la gente di paese: << l’affluenza oggi come oggi da qualche anno è aumentata e la manifestazione è notevolmente sentita e rispettata. Fino a qualche anno fa si stava perdendo poiché le persone più anziane non erano più intenzionate a portare avanti la tradizione e tramandarla. Dal 2002 l’Avis ha ripreso e fatto rinascere questa tradizione, i primi anni sono stati i più difficili, la gente guardava con una certa diffidenza e ostilità tanto che molta cuccia andava buttata, nonostante cio i volontari dell’Avis non si sono mai fermati e con forza di volontà e anche tanta caparbietà l’associazione è diventata promotrice di questa manifestazione che oggi è una delle più attese durante l’anno. Sempre grazie all’ Avis con il passare del tempo sono nate altre associazioni che ne hanno imitato le gesta anche se la loro distribuzione è la più partecipata visto che è riservata a tutto il paese e non solo ai soci>>

Avis che è riuscita ad amalgamare il vecchio al nuovo facendo rimanere intatta la sostanza della festa: << la tradizione è rimasta pressocché invariata, i volontari AVIS preparano la cuccia direttamente in piazza, in grandi “cadaruna” il cui ingrediente è stato prima benedetto dal prete, mentre un enorme stand, allestito con tavoli e panche, accoglie al caldo le persone che voglio degustarla, avviene anche la distribuzione a casa. La preparazione della cuccia avviene facendo cuocere il grano con foglie di alloro e vengono inoltre preparati legumi cotti per chi volesse accompagnare la cuccia. Il tutto viene realizzato a spese dell’AVIS. La manifestazione si rifà in un clima festivo per far sì che si crei quel senso di unione all’interno della comunità>>.

Infine, verso la sera il gruppo parrocchiale della chiesa Maria SS. della Stella allestisce, davanti al sagrato della chiesa o in Piazza Fratelli Messina, una sacra rappresentazione della vita di santa Lucia. Lo scopo è quello di far conoscere la vita della Santa siciliana, mettendo in scena un recital i cui protagonisti sono donne e uomini comuni, legati dal senso cristiano della fratellanza. I testi sono tratti dall’agiografica della Santa, le scenografie, gli abiti e tutta l’organizzazione è curata dal gruppo famiglie della parrocchia che, con amore, prestano gratuitamente la loro opera.

CONCLUSIONE

Giunti alla fine del nostro iter culturale possiamo affermare con certezza che la “cuccìa” si configura, pertanto, come atto sociale e costituisce un simbolo fondamentale per l’identità della nostra comunità. La condivisione del pasto in sé, oltre ad assumere chiaramente un significato rituale, è soprattutto una forma di integrazione sociale e familiare e ci permette di comprendere a trecentosessanta gradi quanto il cibo sia appartenenza locale. Troviamo che sia molto affascinante il fatto che in alcune parti le tradizioni culinarie siano ancora vive, soprattutto in una società in cui l’individuo è sempre meno consapevole dell’origine degli alimenti e il cibo sia diventato un oggetto “opaco”. Nella cuccìa, inoltre, ritroviamo la celebrazione del concetto di “Slow Food” come approccio complessivo alla vita che implica il piacere di un ritmo di vita meno frenetico, che dia spazio a dei momenti di gioia nel rispetto delle tradizioni culinarie, come quello condiviso dai confrati di Pietraperzia il giorno di Santa Lucia.

Sebbene un bisogno primario, l’alimentazione diventa a tutti gli effetti comunicazione attraverso cui un gruppo, per l’appunto, trasmette la propria identità etnica, sociale e culturale. Possiamo quindi affermare che, al contrario di quello che sostiene Valeria Trapani, la quale dichiara che ‹‹il cibo genera comunicazione ma contemporaneamente erige barriere››, in questo caso la ricerca, la raccolta e la preparazione della cuccìa, come si evince, per esempio, dalla conversazione con il signor Giuseppe, è un’attività dal forte valore simbolico, sociale e culturale che unisce le persone e afferma alleanze tra i partecipanti. D’altronde, proprio come sostiene I. Buttitta, è proprio attraverso le pratiche culinarie dei giorni festivi che possono essere ricavate informazioni importanti circa il sistema di valori che ruota intorno una comunità. Il cibo non può essere scisso dal contesto culturale, proprio perché ne è parte integrante. L’atto del mangiare ha una valenza biologica, in quanto attiene alla dimensione vitale del sostentamento, ma è soprattutto una condivisione di saperi e discorsi. (cfr I. Buttitta 2019 pagine 19-20)

Ecco che nella pietanza della cuccìa vengono affermati questi valori simbolici grazie ai quali si affermano e si consolidano i rapporti tra le persone e la dimensione sacrale delle festività. Non è un caso che la festa di S.Lucia cada nel mese di Dicembre, periodo critico dell’anno in pieno inverno. La cuccìa nasce come piatto salato a base di legumi e questo è inevitabilmente legato alla dimensione ctonia poiché, proprio come riporta Buttitta, è testimoniato come, in ambito folklorico, il consumo di legumi bolliti sia un tratto ricorrente delle cerimonie connesse ai morti (cfrI.Buttitta 2019 pagine 82). I legumi rappresentavano il cibo tradizionale dei morti e il loro consumo era dedicato alla memoria di quest’ultimi e lo scopo era quello di entrare nelle loro grazie. Probabilmente la cuccìa, anticamente, nasce proprio come la volontà di entrare nelle grazie della Santa che poteva così assicurare protezione alla comunità dalle terribili tempeste, che si credeva avessero origine proprio il 13 Dicembre (cfrI.Buttitta 2019 pagine 40). Ricordiamo inoltre come il consumo di cuccìa il 13 Dicembre,nel passato, escludesse in toto il consumo di altri farinacei che non fossero la cuccìa, proprio perché, come sostiene Buttitta, ‹‹il divieto del consumo di prodotti di farine molite in certe date è in realtà l’obbligo di mangiare con i morti›› (Buttitta 2019 pagine 82).

Un semplice piatto che ogni anno assaporiamo nelle nostre tavole, gustandolo con i nostri cari, si è rivelato portatore di significati antropologici intrinseci che ci hanno concesso di osservare i fenomeni festivi in chiave del tutto nuova, consentendoci di allargare le nostre visioni e di prendere maggiore consapevolezza della nostra identità culturale e culinaria.

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