A esattamente 20 anni di distanza dal clamoroso successo mondiale di "Supernatural", cui hanno fatto seguito, soprattutto nei primi anni Duemila, album di media qualità come "Shaman" del 2003 ad altri decisamente mediocri come l'insignificante "All That I Am" del 2005, il leggendario chicano Carlos Santana, dopo le ultime buone prove di "Corazon" del 2014 e di "Santana IV" del 2016, con il ritorno di (quasi) tutta la line-up ufficiale del lontano 1969, decide di tornare a picchiare duro con la sua bella e satura Paul Reed Smith e, in collaborazione con il leggendario produttore di Red Hot Chili Peppers e Johnny Cash (e non solo!) Rick Rubin, pubblica questa sua nuova fatica discografica che porta il simbolico titolo di "Africa Speaks", come si può chiaramente evincere dalla stupenda copertina fronte/retro.

Dal punto di vista prettamente artistico/creativo, esordiamo subito con il dire che l'album in questione non scopre né inventa nulla di nuovo di ciò che l'ottimo Baffo Latino ha sperimentato in praticamente quasi mezzo secolo di attività, però la qualità media del materiale è in generale di buonissimo livello con diversi picchi compositivi, come vedremo qui di seguito.

Anzitutto, partiamo dalla semi-strumentale title-track "Africa Speaks" che mette fin da subito in luce l'altissima tonalità della voce della cantautrice spagnola, ma di chiarissime origini africane, Buika e la sempre incisiva e squillante chitarra di Carlos che dimostra già di fare decisamente sul serio.

Con la successiva "Batonga" le atmosfere sono quelle di "Santana III": congas e timbales sparati alla massima potenza, cui fa seguito una vera e propria battaglia a colpi di assoli di chitarra e di Hammond B3 ad opera rispettivamente di Carlito e dell'ottimo David K. Mathews che nell'occasione si traveste nell'indiavolato Gregg Rolie che fu allora ai tempi, cioè, del leggendario Woodstock.

"Oye Este Mi Canto" è, invece, basato su un iniziale gradevole ritmo afrocubano con Buika in sospeso tra il canto in spagnolo ed alcuni versi declamati probabilmente in lingua bantu, seguito dal solito assolone poderoso di un Carlito ancora decisamente in forma smagliante.

In "Yo Me Lo Merezco" il ritmo è quello di bel pezzo Blues/Rock con la sempre brillante voce di Buika in primo piano e una strepitosa sorta di jam-session di Santana che anima la seconda parte di questo ottimo brano.

L'apice dell'album lo troviamo però nella successiva "Blue Skies" che esordisce con un attacco Jazz/Blues e le due altissime voci di Buika e Laura Mvula che sfumano poi verso una vera e propria battaglia a colpi di riff ed assoli di chitarra spaziali tra Carlos e l'altrettanto ottimo chitarrista/compositore Tommy Anthony, chiudendosi, infine, con una rilassata parte, nella quale sono le percussioni ottimamente suonate dallo storico Karl Perazzo a farla da padrone.

Di chiarissima matrice Funk (o Funky, che dir si voglia) è "Paraisos Quemados", dove Carlos si alterna nei riff e negli assoli con l'Hammaond di Mathews molto ben distinguibile, ottenendo come risultato finale un brano bello torrido e denso.

"Breaking Down The Door", come recitano le note di copertina, è un adattamento di "Abatina" di Manu Chao, ma il risultato è quello di un pezzo orecchiabile, che ricorda molto da vicino le atmosfere dei barrios centro-sudamericani e, soprattutto, molto ben suonato ed arrangiato persino con un assolo di trombone quasi a metà brano.

"Los Invisibles" presenta un testo scritto per intero in lingua bantu, dedicato a tutti i "desaparecidos" (per l'appunto, i cosiddetti "invisibili") e una musicalità a metà strada tra il Latin e l'Hard Rock ad alto tasso tecnico.

"Luna Hechicera" mantiene su livelli più che buoni le sonorità Latin Rock del disco, mentre "Bembele", introdotto da un buon riff di piano elettrico in stile Jazz, presenta un giro di basso molto simile alla storica "Jingo" del 1969 e nel complesso rientra appieno nei canoni "latinos" propri di Carlito.

Conclude l'album "Camdombe Cumbele", un altro numero Latin Rock di buona levatura che mette degnamente la parola fine su un album che, in un mondo come quello attuale dominato dalla cosiddetta "musica di plastica" laddove è l'elettronica (spesso usata in maniera dozzinale, specialmente nel Pop e in generi d'importazione molto recente "Made in USA" come la Trap) a fare la parte del leone, rappresenta una sana nonché salvifica boccata d'ossigeno per chi ama ancora incondizionatamente la famosa "musica suonata" che anche nel Rock attuale sta drammaticamente perdendosi, ma che, grazie anche a "Baffo Latino", ancora vive e lotta con noi.

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