Dylan Dog n. 66 “Partita con la morte”. Citazione di citazioni, colta come una banana col bollino. Ma me ne importa poco. Ricordo quando ero in piena adolescenza, leggevo Dylan Dog per ammorbidire i vari Poe e Dosto’ e ascoltavo i Savatage per passare precocemente dalla pubertà ad una età più matura. Ridicolo! Mi ero accorto che le ragazze crescevano più in fretta. Volevo crescere pure io senza sapere che me ne sarei pentito. Perché ora che sono in età (un po’ più) matura e riascolto i Savatage, con una vita alle spalle ancora non tanto lunga ma carica di assi d’oro e di bastoni, ho capito tante cose (ridicolo(!), me lo dico da solo anche qui). All’epoca di Handful Of Rain loro avevano già giocato la partita con la morte. E ne sono stati completamente soggiogati. Credendo di vincerla, hanno esplorato con il cuore del metal/rocker quella sensazione di straniamento e paranoia che si ha nell’abitazione costruita da se stessi: un castello di domande del cazzo a cui trovi solo risposte del cazzo. Ma è il modo con cui ti poni le domande che a volte diventa così fantasioso, schivo, ipocondriaco, bisognoso di carezze, brillante, progressivo (nel senso di quel crescendo interiore che si prova nell’illusoria convinzione di essere vicini alla verità) che affresca il castello in un modo tale che neanche i fratelli Grimm avrebbero potuto congegnare. Torri con angoli a novanta gradi, merletti di epoche diverse, colonne che dagli stili greci arrivano al roccocò. E una piattaforma di zattera da Caronte su cui poggiare il “mostro”, che li fa sentire dei navigati esploratori del confine tra la vita e la morte.

Questo erano i Savatage nel 1994. Il disco in questione è patetico. Ma si tratta di un patetismo che commuove. Forse l’aggettivo inglese moving rende ancor meglio l’idea. Brani che si dimenano in preda a carnefici raptus schizofrenici come Taunting Corbas e Nothing’s Going On mostrano degli uomini feriti che vorrebbero essere bestie ma sono semplici creature nude che lottano contro il movimento costante delle palle dei mulini a vento, in una improbabile riscossa contro la solidità immobile degli eventi. Ecco, come Don Chisciotte prima ti fanno provare un senso di derisione, poi di pietà. In più, c’è da dire che la violenza acuisce il dolore e sala le ferite. Anche l’esplosione di forza e resistenza agli urti degna di un Tony Montana crivellato dai proiettili, è seguita da un lungo momento di dolore fisico e morale, e poi dalla stasi. Lì insorge la dignità, che porta alla ragione e alla lucidità per i soli cinque minuti della titletrack, che è una presa di coscienza ruvida e stabile come un’Audi dai vetri oscurati, in cui puoi viaggiare e pensare mentre sei in corsia di sorpasso e gli altri, alla tua immagine nel retrovisore, rispondono facendosi da parte e lasciando la carreggiata libera il più possibile.

Anche i Savatage, da uomini e musicisti nella norma quali erano, vivevano su un sentiero di coscienza in piano che confina con un ripido costone di roccia in salita da un lato, e con un veloce e nebbioso pendio in discesa dall’altro. Pendenze che misuravano la voglia di sfida che si ha nella vita su un versante, e la paura dell’offuscamento cerebrale sull’altro. In fondo, con un semplice passo falso, i collegamenti neuronali possono saltare e s’impazzisce. Mentre con tanti passi duri si potrebbe risalire la china. Oliva e soci, sgomenti e tramortiti, sono un zombie muscoloso che vaga in libertà tra gli abissi dell’umidità e gli anfratti delle rocce più alte, scoprendo ciò che si può provare in una vita epica e completa di emozioni e scoperte, certezze e fatalità, momenti di ripresa e scivoloni irrimediabili. Per questo pezzi come Watching You Fall, Alone You Breathe, Stare Into The Sun e tutti gli altri (come non citare Castles Burning) rimediano a livello sonoro, gli appunti di un viaggio che non abbiamo potuto vedere, ma che suona come una completa e compiuta opera teatrale, affidando i diversi momenti di pathos sulla cresta del silenzio degli astanti, a diversi generi musicali. L’heavy metal più rude lascia il proscenio all’hard rock, all’epic metal, a riflessi di country e progressive. A riflessi di morte scanditi da testi che regalano visioni nitide ma anch’esse patetiche e commoventi come dicevo prima. Andando per astrazioni, riascoltando oggi Handful Of  Rain mi sembra di avere questi poveri cristi sotto gli occhi, rinchiusi in un cubo di plexiglass trasparente, che si muovono come disperati avventurieri staccati da ogni contesto reale. A prima vista sembrano ridicoli, ma se li osservi uno ad uno, hanno movenze di spaesati eroi mitologici dei giorni nostri. Un disco che fa della mescolanza e della struttura la sua forza e, perché no, la sua ricerca. Un disco che dimostra come la morte di Criss Oliva abbia lasciato il peggio di vivere agli altri della band. Il peggio di vivere agli altri della band. E scusate se raddoppio. La recensione. Non il concetto. Quello è importante. 

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