Sulla scia delle grandi ambizioni e contaminazioni che hanno imperversato nel metal estremo del terzo millennio, gli svizzeri Schammasch, giunti nel bel mezzo del 2016 alla loro terza prova, ci appioppano Triangle, un album che avrebbe tutte le carte in regola per provocare priapismi imponenti e polluzioni notturne agli estimatori del post-black più sofisticato: trattasi anzitutto di un triplo album, il che già riecheggia un certo feticismo delle trilogie a cui ormai dovremmo essere avvezzi. Inoltre, inutile dirlo, la suddivisione in capitoli segue un vero e proprio concept, descrivendo, con una veemenza invidiabile mantenuta nell'arco di 100 minuti tondi tondi, il percorso che lo spirito intraprende a partire dal momento della morte per trascendere la carne e raggiungere uno stato di coscienza superiore. Insomma una roba da niente, no?

Sarebbe altrettanto inutile specificare che l'idea di fondo, molto suggestiva e ancor più coraggiosa, è destinata a riflettersi in una trasformazione musicale coerente con l'impianto (per così dire) narrativo: prendendo spunto dal maestro Vindsval/Blut Aus Nord (ma non solo!) e la sua saga dei 777, la materia musicale segue una progressiva decorporazione e approda così su lidi che di metallico non hanno più nulla. Conviene quindi non farsi ingannare dal primo disco (The Process of Dying), che sì rappresenta uno dei migliori esempi di post-black di questo florido 2016, ma nel contesto dell'album è anche il più scolastico. I riferimenti alla caotica scena francese si sentono tutti, la matrice è evidente ma tutto sommato ben rielaborata; le trame ora nervose e dissonanti, ora furiose e implacabili, lasciano comunque spazio ad alcuni sprazzi di calma sospesa, mentre la voce ringhia e declama senza pietà i suoi sermoni (mi viene spesso in mente quel simpaticone di Nergal), concedendosi però a qualche inaspettato coro ritualistico. La produzione è eccellente, moderna, coi suoni ben pompati e puliti (fin troppo?), e la tecnica a questo portentoso quartetto di certo non manca.

Al secondo capitolo, Metaflesh, spetta il compito di traghettare la materia di partenza, giustamente codificabile, verso qualcos'altro: si respira la caligine sludge in The World Destroyed by Water, dall'incedere marziale e perentorio; Satori, una delle vette dell'opera, ipnotizza e ammalia e inquieta con una sontuosa coda di canti simil-gregoriani; Metanoia, a dispetto dell'apertura frenetica, strizza l'occhio al gothic metal e disegna nuovi orizzonti musicali nella visione degli Schammasch. Above the Stars of God tra le altre cose sorprende con quei soli gilmouriani, salvo poi scaraventarci di nuovo in un abisso di urla ieratiche e riffoni sulfurei, sebbene ormai sia chiaro che il paesaggio è significativamente diverso da quello degli inizi. La Conclusion di Metaflesh, melodica e priva di distorsioni, pare quasi fuori luogo, ma non è che un antipasto di ciò che ci aspetta nel terzo disco.

The Supernal Clear Light of the Void è la totale e (a questo punto) prevedibile dipartita dalle sonorità estreme. La rarefazione ambient però non stempera neanche in minima parte i toni emotivi di Triangle, che anzi sembrano guadagnare in severità e pesantezza, oltre ad essere di gran lunga più evocativi: gorghi di droni, gong, percussioni tribali, didgeridoo, sassofono, canti orientaleggianti, stasi di minimalismo spettrale, arpeggi sparsi, vuoto immaginifico: strano a dirsi, i risultati sono all'altezza degli intenti e gli Schammasch si dimostrano degli ottimi "Caronti" in quest'ultimo viaggio psichedelico oltre la carne. Inutile fare menzioni particolari; il terzo disco, più degli altri, merita di essere ascoltato come se fosse un brano unico, abbandonandosi del tutto allo scorrere di suoni, silenzi, battiti e respiri.

Con Triangle gli Schammasch aggiungono un altro gioiello nel variegato mosaico del black moderno, ormai distante anni luce dalle tradizioni e sempre più votato alla ricerca, tanto sonora quanto concettuale. Resta il sospetto che il progetto nel complesso ecceda un po' nell'ambizione - che si spera non strabordi irrimediabilmente in un ipotetico quadruplo album in futuro. Per farsi un'idea dei toni impiegati basterebbe leggere i testi: di sicuro sentiti e di grande impatto, oltre che di un certo spessore, sebbene tra induismo, citazioni bibliche e declamazioni latine e sanscrite salti fuori un pastiche pomposo che talvolta esalta, talvolta perplime. Questi si prendono moltissimo sul serio, ma ne hanno comunque ben donde: non è un'impresa facile saper comprimere tante idee in tre dischi pubblicati in contemporanea senza peccare di prolissità e/o inconsistenza, e se i risultati sono di questo livello possiamo chiudere più di un occhio. Tra le migliori uscite del 2016, senza dubbio.

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