Ciao ragazzi!

Ben ritrovati dopo diversi anni sulle pagine del nostro sito preferito. Per chi, specie i più giovani, non mi conoscesse appieno, rinvio alle vecchie recensioni di oltre un lustro fa, mentre ai miei amici dell’epoca dico semplicemente: mi siete mancati come io sono mancato a voi. E scusate se lo stile non sarà frizzante come un tempo, ma in questi anni mi sono coricato presto. Tuttavia.

Tuttavia, da un po’ di tempo sono inseguito da fantasmi della coscienza e sensi di colpa per aver abbandonato la mia mission senza recensire un artista e performer che, nei primi anni ottanta, aprì a me e molti coetanei le porte della percezione verso il pop-rock e la new wave: mi riferisco a Giovanni Scialpi da Parma (n. 1962), assurto, nel giro di pochi anni, a gloria nazionale, in un’epoca in cui l’inglese era malamente insegnato alle scuole medie ed alle superiori (credo fino al ginnasio) e non tutti potevano padroneggiare la lingua al pari di oggi, quando qualsiasi adolescente si fa la sua bella vacanza studio in Inghilterra grazie ai vari low cost e offerte assortite.

Fra i principali meriti di Scialpi vi fu quello di divulgare alle masse italiane linguaggi e stili di matrice angloamericana, all’incrocio fra Brian Ferry, David Bowie e Ric Ocasek, favorendo l’acculturazione di quell’ascoltatore magari semplice, magari poco propenso o attento alle novità straniere (rammento che all’epoca gli lp erano quasi tutti di importazione e difficile reperibilità), che tuttavia era in cerca di un’alternativa all’insterilita vena dei cantautori degli anni settanta, come pure del melodismo pop del mainstream sanremese alla Cotugno, Christian o Fogli, e, non ultimo, al pop alternativo e comunque già di nicchia di artisti come Garbo o Faust’O.

In ciò, il senso primigenio dell’operazione Scialpi: operazione culturale nel senso che il personaggio fu, a mio avviso, il prodotto di una strategia commerciale e qualitativa pienamente consapevole volta a sintetizzare, anche sul piano tecnico, il tipico melodismo italiano con arrangiamenti all’avanguardia per l’epoca, non dimentichi di un uso sapiente e quasi futuristico dei sintetizzatori, così da proiettare l’ascoltatore verso un futuro suadente quanto inquietante. Verrebbe da dire, per certi aspetti, apocalittico.

Nuova onda figlia ora ingenua ora no di Blade Runner e delle rockoteche, forse, come non sarebbe dispiaciuta a Pier Vittorio Tondelli, se si fosse davvero accorto di lui e gli avesse tributato il giusto ruolo in “Un weekend postmoderno”.

Ricordo bene che lo Scialpi dell’epoca, anche a Sanremo, faceva scandalo presso il pubblico dei perbenisti e dei genitori non solo per il modo di vestire – abiti in pelle a frange, borchie, quasi figlie di un Rob Halford ingentilito e dandy – ma anche per i temi e testi trattati nelle sue canzoni, in cui la tensione dell’epoca del riflusso, della glasnost veniva messa a nudo, simboleggiando da un lato l’esigenza connaturata ai giovani di rompere gli schemi, e, dall’altro, la paura stessa di assumersi la responsabilità di scrivere, in prima persona, la storia ed i suoi sviluppi.

Paura, incertezze, che Scialpi – qui debitore di Joy Division e Bauhaus, forse – fu in grado di rappresentare con efficacia e consapevolezza in un’epoca in cui altri peccavano di un eccesso di ottimismo, convinti nella sostanza che dopo i tumultuosi anni settanta gli ottanta fossero l’avvio di un’epoca d’oro, annunciata dal Drive-In, dall’Alfa 75, dalla paninoteca e dalla possibilità di prendere il diploma di scuola superiore alle scuole private, facendo tre anni in due.

Di questa bella antologia basti richiamare alcuni brani che dimostrano quanto sto cercando di dimostrarvi. Iniziando con la splendida Rocking rolling (1983), anthem suonatissimo ben prima dell’avvento di Duran e Spandau, è significativa la strofa in cui Scialpi canta “ci han sepolto qui/sotto la metropoli/rinchiusi in un metrò che non parte mai/non ci sono show/niente più spettacoli/non si balla più/ non si canta più”, prima di guidarci verso l’esplosione del ritornello eponimo, sottolineando una dimensione quasi resiliente del rock, inteso come ritmo, suggestione, prima ancora che come contenuto. Ricordi personali, ma l’apparire di Scialpi a Discoring, in quegli anni, ebbe lo stesso effetto della neve in aprile: luminescente, improvvisa, spiazzante.

Intimista il singolo Coffee and Cigarettes (1984), in cui il disorientamento di quegli anni viene espresso con toni all’incrocio fra Carver e Mastronardi, quasi a congiungere piano padano e States, cantando “siamo isole nell’oceano della solitudine/e arcipelaghi le città dove l’amore naufraga/giù dai marciapiedi un cuore rotola”, fino al disorientamento nichilistico in cui “Cigarettes and coffe/niente più/ un po’ di fumo che va su/l’amore prende i sensi ma senso non ne ha”. What burns never returns, verrebbe da commentare; se Scialpi non avesse detto tutto con parole migliori delle mie.

La difficoltà a collocarsi, la stessa ansia di essere protagonisti di un futuro che è certo nel suo accadere, ma non nel suo essere, risalta in modo ancora più netto nella successiva No East – No West (1986), coraggioso tentativo di uscire dallo schema binario che l’epoca degli Wargames obbligava a seguire, specie nel passaggio in cui Scialpi declama “io bandiere non ne ho/non ci credo neanche un po’/ aria pura dove sei/soffia fino a che non s’alza il vento”, fino al ritornello che esplode nel crossover linguistico “No east no west/we are the best/ognuno al mondo un posto avrà/no east no west è questa la mia terra”. Si compari questo pezzo con il quasi coevo “Terra promessa” dell’allora giovane Ramazzotti, e si comprenda come Scialpi fosse portatore di un messaggio libertario e liberante certo, ma non del tutto pacificato: “questa” è la mia terra sottolinea come la necessità di cogliere l’attimo e riorientarsi giorno dopo giorno, senza cedere al messianesimo ed alle illusioni ideologiche.

Non proseguo oltre nell’analisi dei singoli brani (fra cui rammento almeno la ritmica “Numero 106” ed il pop maturo di “Pregherei”), lasciando ad ognuno di voi il gusto di scoprire o riscoprire un artista che, negli anni, ha comunque saputo adattarsi ai tempi ed adattare il proprio stile alle esigenze del pop più moderno, proseguendo in un percorso artistico che dura tutt’ora sotto il rinnovato nome d’arte di Shalpy.

Chi conosce già Scialpi e i suoi pezzi, non ceda alla nostalgia ed al pensiero del tempo che fu. Rispolveri, semmai, la grande Rocking Rolling per sopravvivere, con la musica, al silenzio che c’è.

Ubiquamente Vostro

Il_Paolo

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