Quella voce impastata di polvere e lirica rabbia, pathos e orgoglio a reagire alle trappole di una vita ai margini; quella voce che sussurra e scandisce come di un angelo tra fuochi infernali e che pare, invece, uno scherzo 'celeste'-persa com'è nel poetico declamare morrisoniano, in ricordi roots fine '60 di John Fogerty e nel baritono alcolico del signor Waits....

Trovare tutte queste sensazioni in una sola voce sembra assurdo, appunto uno scherzo, ma tant'è che fu grande la mia emozione quando ascoltai la prima volta Mark Lanegan. E si che era stato uno dei suoi celebrati album solisti (Scraps at midnight-'98) a farmi trascinare fra le pieghe di un'anima non piu' lacerata come in passato, non del tutto placata e ancora immersa nel buio. Cosi', io che della stagione inizio '90 di Seattle ero stato assorbito per lo piu' da Nirvana, Pearl Jam e Soundgarden (per inciso i miei prediletti), arrivai a scoprire i cosiddetti 'alberi urlanti', che di quella scena erano tra gli esponenti di piu' lungo corso. Infatti un lustro separa l'esordio 'Clairvoyance' su ep del 1986 da questo ‘Sweet Oblivion', uscito sull'onda di una discreta notorieta' ottenuta grazie a ‘Nearly lost you' presente sulla colonna sonora del film ‘Singles' di Cameron Crowe.

La figura carismatica e il talento di songwriter di Lanegan emersero subito all'interno del gruppo di Ellensburg (Washington), composto dai fratelli Van e Gary Lee Conner rispettivamente basso e chitarre e da, in quest'album, Barrett Martin alla batteria. Il ritorno a un classicismo rock quasi privo delle asprezze sonore passate è subito dichiarato dall'incipit iniziale di ‘Shadow of the season', che anticipa la melodia garage-sixties della gia' citata ‘Nearly lost you'; per poi arrivare, quindi, ad una delle piu' belle composizioni degli Screaming tutti: 'Dollar bill', grintosa ballata rock sostenuta dal canto virile del leader (come dei Creedence moderni attraversati dalle scariche elettriche di quei anni). Altri pezzi notevoli sono il blues impetuoso di ‘More or less', la frenesia rock'n'roll di ‘Butterfly', le dolenti melodie di ‘For celebrations past' e 'Winter song' e l'epica e amara 'No one knows', in cui la chitarra di Gary Lee Conner contribuisce a disegnare il tono insieme malinconico e duro, ma mai rassegnato dei testi.

La cavalcata rock di ‘Julie paradise' sancisce il finale di questo ‘dolce oblio', in definitiva un lavoro meno aggressivo e psichedelico dei precedenti ‘Buzz factory' e 'Uncle anesthesia' che contribui', pero', a farli conoscere dal grande pubblico in virtu' di un approccio piu' comunicativo e melodico; forse meno urgente e spontaneo ma, a distanza di anni, capace di ribadire il ruolo certo non di contorno dei Screaming Trees nel panorama musicale di allora.

Poi, con quella voce, Mark Lanegan se ne ando' per altri sentieri, recuperando tradizione cantautoriale e filtrandola con la sua sensibilita'.... ma questa è un'altra storia.

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