Di questa band non so praticamente nulla, né come si chiamano i membri né da dove proviene, quanti dischi ha pubblicato o se è ancora in attività; però ho questo loro album ed è tra quelli cui sono più affezionato, semmai è possibile affezionarsi ad un tondo di vinile nero; ma non è questione di feticismo – per me, mai stato feticista e mai elevato altarini all'oggetto vinile – quanto piuttosto di ricordi e sensazioni; e siccome i ricordi sono miei e di nessun altro e le sensazioni sbandano pericolosamente verso la soggettività, per me è un piccolo grande disco, per chiunque altro magari è la somma del prescindibile.

L'album esce nel 1994, almeno questo lo so, e lo compro da Banda Bonnot che, ai tempi, è il mio covo musicale prediletto, quaranta metri quadrati ma nemmeno, stipati di vinili e cd, dove trovi di tutto e di più della scena punk, hardcore, oi, ska e pure qualcosa di northern soul; c'è una vetrinetta che dà sulla strada, dove stanno esposti i dischi nuovi e quelli che meritano; il giorno che ci passo ci sta esposto pure questo, ovvio, e decido che è mio ancora prima di entrare nel covo; nel senso che è uno di quei dischi che compro per la copertina e, finora, nessuno di loro mi ha mai deluso.

La copertina, allora: è tutta bianca; in alto, centrato in nero minuscolo, il nome della band, Scum Of Toytown, in basso, sempre centrato e in nero minuscolo, il titolo dell'album, «Strike»; al centro, in un tondo, un omino stilizzato nell'atto di lanciare una fiammeggiante bottiglia molotov, e il giallo e il rosso sono le uniche note di colore; di arte, sopratutto quella moderna, conosco poco e non capisco nulla, ma quell'omino per me è una creatura di Keith Haring in salsa anarcoide, seppure priva di colore; tra i ricordi non affiora quello di come stessi messo nel 1994 rispetto ad Haring, ma oggi per citare quel nome mi è necessario ricercare su Google Immagini “pittura moderna omini stilizzati”, e comunque funziona, perché il risultato sono una valanga di immagini di opere di Haring. Pure il retro ha un vago gusto artistico, però cinematografico: quella rappresentazione in nero su rosso l'ho vista in qualche film a perenne onore e gloria della rivoluzione russa, tento con «Ottobre» del sommo maestro Sergei Eisenstein, ma la mia ignoranza in materia è ora come allora sconfinata. Nonostante tutto, la copertina, fronte e retro, dice in modo incontrovertibile di un album contro il famigerato “sistema”.

Torno a casa, estraggo il vinile dal cellophane, dentro ci sta il foglio con i testi dei brani, come in ogni disco rivoluzionario che si rispetta; e sul foglio ci sta quella scritta che mi ricordo ancora oggi senza bisogno di ritirare fuori l'album, di sicuro è la prima e l'unica volta che leggo una cosa del genere, dice che la pubblica esecuzione non autorizzata del disco è fortemente incoraggiata, nel senso che agli Scum Of Toytown dei diritti d'autore non gliene può fregare di meno.

Rimane solo il rischio che suonino anarco-punk, perché a me l'anarco-punk fa abbastanza schifo, ma l'incubo si dissolve appena calo la puntina sul vinile: rock'n'roll, ska e dub che si danno la mano, mi sa tanto di Chumbawamba ai tempi del bellissimo «Never Mind the Ballots», l'unico disco anarco-punk che ho lasciato entrare nella mia raccolta; però dei Chumbawamba più immediati e diretti e pure meno escludenti; sempre sul foglio interno, ci sta una citazione che dice che se non posso ballare, questa non è la mia rivoluzione, per me vuol dire tanto, di sicuro pure per gli Scum Of Toytown; una dichiarazione d'intenti, insomma, del tipo che una rivoluzione è più rivoluzionaria se chi ti sprona è al tuo fianco e sorride pure, invece di indossare una grinta perennemente fosca. Dieci brani in tutto: il primo e gli ultimi due scorrono via senza sussulti, ma i sette che ci stanno in mezzo sono una delle sequenze più belle che ho ascoltato negli anni '90; tanto che «Jackboot Crusade» – Sandy Denny davanti al microfono e dietro i Clash al gran completo, quelli del «Sandinista» più roccheggiante – sta lì tra i miei dieci brani da ricordare, uno per ogni anno, e segna a fuoco il 1994; sempre i Clash, sempre loro, agosto 1980, «Different Drum» la piazzano sul lato b del singolo «Bankrobber», perché 14 anni non passano mai invano e certo stile non tramonta mai; e «Mr. Clinton» proclama con voce forte e divertita che il sogno americano è morto e sepolto, ben prima di quella stagista che scivola furtiva nella studio ovale, e non lo riporta in vita neppure un Obama a caso; e se anche «Six Feet Higher» è costruita campionando il riff de «Il lago dei cigni», è sempre un gran pezzo, laddove qualunque altro brano che mischia il profano e basso rock'n'roll alla sacra ed alta musica classica cade immancabilmente nel ridicolo.

E comunque lo so che la melodia di un balletto classico non si chiama riff, quindi non è necessario rimarcarlo, anche perché qui parlo di arrembante rock'n'roll e tanta altra cultura popolare, la materia di cui è fatto «Strike».

Merita più di un ascolto.

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