Quanto sono brutte le stazioni alle 7 del mattino. Quando la ripetitività dei gesti pervade le tue giornate, anche la cosa più elementare diventa angosciosa. Ed ha un non so che retrogusto di tristezza stare fermi li, ogni mattino, ad aspettare quello delle 7 e mezza con annesso ritardo. Al punto che le bestemmie della gente per questi ultimi non fanno più notizia, le ascolti così, senza farci caso. Anzi, a dire il vero non fai caso a nulla. Trovo che sia l'unico momento della giornata in cui divento un tutt'uno con me stesso, penso tanto e mi conosco meglio.

Sempre le stesse facce. E guarda caso, capito vicino sempre alla stessa vecchia di merda, che mi parla male dei centomila immigrati che pervadono questi vagoni. 'Signora, le giuro che non mi interessa', vorrei dirle mentre annuisco come uno scemo. Certo, affacciarsi al vetro forse non è l'idea migliore, dato l'angoscioso orrore metropolitano che mi circonda, quasi lolliano, che ha su di me l'effetto di una penna infilzata nell'occhio. Palazzi su palazzi, degrado su degrado, erbacce su erbacce. Eppure ho trovato il modo di divertirmi anche così, ricordandomi a memoria le insegne di tutti i magazzini che si vedono in lontananza. E cazzo, le so tutte a memoria. Strano per uno che si scorda anche la data del suo compleanno.

Questo finchè il solito stronzo di un controllore non inizia a fissarmi da lontano con quell'aria da Clint Eastwood in 'Il buono, il brutto e il cattivo', nella famosa scena dello duello. 'Ho l'abbonamento, stronzone', vorrei dirgli mentre gli mostro la carta con aria di indifferenza. Ma è solo quando mi rendo conto di non capire un cazzo di quello che blaterano quei due coreani seduti davanti a me che decido che l'unica via di fuga da quei 35 minuti è un paio di cuffie. Cuffie. Mi hanno salvato la vita più volte loro che la cintura di sicurezza.

Sono molto affezionato a quel dualismo che si viene a creare quando sovrapponi il piacere della musica al degrado umano che ti circonda. Tocco con mano ciò che ascolto ed emerge in qualche modo un amara felicità, che si prolunga fin quando mi accorgo che sotto quelle cazzo di gallerie non c'è campo. A quel punto non ho scelta: cerco nella scheda memoria, tra le canzoni che ho salvate. Se solo non fosse che non aggiorno quella lista dal 2010 e che il sound meno brutale è quello degli Amon Amarth, sarebbe il santo graal. Ma in un angolino della memoria, quasi come chiuso in un cassetto, c'è inspiegabilmente una manciata di brani di Sergio Endrigo, alla quale non posso fare a meno che affidarmi in ogni viaggio mattiniero.

Sergio Endrigo è stato comodamente dimenticato, lasciato li, in un angoletto, come se non fosse mai esistito. Ma quella che fece fu una vera e propria rivoluzione: da perfetto cantautore degli anni 60, rimase intrappolato come molti nei canoni musicali imposti all'epoca, districandosi attraverso i generi, senza mai risultare banale o scontato. Senza mai allontanarsi dalla sua vera matrice. Le varie apparizioni a Sanremo, la collaborazione col maestro Bacalov, la passione per il Brasile, l'amore per la chitarra. L'esordio del '63 con la hit 'Io che amo solo te', e tante, tante canzoni tramandate ai posteri, tra temi amorosi, sociali, e fanciulleschi. Il sodalizio e la collaborazione con Ungaretti, il successo quasi internazionale del 1974 con 'Ci vuole un fiore'. Colui che apparentemente è considerato uno di seconda fascia, si innalza a personaggio di tutto tondo, divenendo in me un punto di riferimento.

'Lontano dagli occhi, che culo', esclamo a bassa voce quando mi ritrovo il brano in playlist. Sapete, ho questa strana tendenza ad innamorarmi delle canzoni e ad ascoltarle così tante volte da nausearmene. Sono pochi i brani che riescono a salvarsi da questo sterminio. Eppure questo, per niente banale come la cultura sanremese impone, resta a distanza di anni un evergreen per le mie orecchie. E mi tornano alla mente le registrazioni di quel Sanremo 69, di quando quel signore in giacca e cravatta salì sul palco del Salone delle feste, con aria mesta e accorata, e fece sua questa canzone con l'aria di chi convive con ciò che canta, di chi se lo porta dentro. Della sua voce cosi profonda ed educata, della sua mascella così strana che divenne col tempo segno di espressività. Ripenso a come quell'orchestra accompagnò magistralmente la voce di Sergio, di come suonava bene quel pianoforte, di come tutto fosse così perfetto. E di come inspiegabilmente quell'edizione così contestata fu vinta da Iva Zanicchi con 'Zingara', di Don Backy, di Nada con la memorabile 'Ma che freddo fa', della prima apparizione di Battisti con 'Un'avventura', per un'edizione in cui aleggiava nei cieli di Sanremo ancora il fantasma di Luigi Tenco.

Il tema della lontananza fu carissimo ai cantautori dell'epoca. Gente come Endrigo ci costruì metà della prima parte della sua carriera, senza mai cadere nel banale. Ma si tratta di una distanza non obbligatoriamente misurabile in chilometri, ma vista come uno stato d'animo. Una lontananza mentale e non fisica. Si può essere lontanissimi da vicino, e vicinissimi da lontano. Ma questo Endrigo lo sa, e recita una delle frasi più belle che i miei anni ricordano: 'Per uno che torna, e ti porta una rosa, mille si sono scordati di te'. Quel gesto che riscatta mille delusioni, quella persona che restituisce vita sottoforma di una rosa. E la rosa, proprio lei, come segno di delicata innocenza che si contrappone alla tristezza dell'incuria sentimentale. E di quella urbana, che osservo con afflizione attraverso i vetri del vagone.

Una rosa. La risposta a tutto è una rosa. Ed è forse da questa consapevolezza che dovrei iniziare. Il treno si ferma, e mi volano nella mente 47 anni in un batter d'occhio. L'ipocrisia sociale a me tanto cara non può aspettare, e mi incammino verso l'ennesima giornata da fuori sede. Ma rincorrendo lo stesso ritornello che ho negli occhi ogni volta:

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore

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