Non si tratta di scrivere un pezzo o di recensire un'opera, né di esporre più o meno dettagliatamente un pensiero o rendere condivisibile le proprie opinioni. Non si tratta di questo. Non ora.

Qui faccio i conti con me stesso.

Si tratta di tirare le somme su di un qualcosa che è stato fondamentale nella mia esistenza, qualcosa che si fatica a descrivere, un'emozione troppo grande e troppo intensa, che addirittura non vorrei riprovare, perché rischierei di non reggerla.

Una sensazione animalesca che scorre impetuosa su una pellicola infinita.

Si può fare di un libro una vita, un'intera vita? O di un film? Di un quadro, di una scultura o di una poesia? Può un giallognolo libretto di poesie arrivare a contare come tutta una vita? Non saprei...

So che quando la terra iniziò a tremare, quella notte, quando le pareti cominciarono a ondeggiare e le viscere mi si contorsero dentro come in preda a un sussulto primitivo, l'immediato mio e unico gesto, prima che la ferocia si placasse, fu d'afferrare I fiori del male di Baudelaire e stringerlo al petto.

Cosa porteresti con te?

Non il portafoglio, non la macchina, non i vestiti. Sarei propenso a decidere per le medicine (chi, purtroppo, non può farne a meno), i libri e i film. E le sigarette, ovvio...

E se potessi scegliere una sola cosa?

Forse, un libro. Probabilmente, McCarthy. Cosciente di perdere tutto il resto, fra cui decine e decine di film, alcuni dei quali indimenticabili capolavori.

Può essere un rifugio. Una caverna dorata. Prima che la vita si disintegrasse, prima ancora di assimilare il fallimento e prendere la discesa. Perché, in fondo, lo sapevi già. Non sei cresciuto a pane e televisione. Certo, tutti quei pomeriggi trascorsi a vedere vecchi film western su Rete4 e su RaiMovie, che poi erano gli stessi film che amava tuo padre e che tu avevi visto già da bambino. No, non sei cresciuto così. Ma il tempo è andato avanti ugualmente, e in quei sabato sera che fumavi la tua roba mentre in tivvù passava "Il buono il brutto il cattivo", alla fine, stavi bene. Avevi trovato la tua dimensione. C'è molta più verità nei film western che nella vita di tutti i giorni. Avevi letto di Martin Scorsese, che a dieci anni s'era già diegnato tutti i film possibili e immaginabili. O di Quentin Tarantino, che a sedici anni si era visto un secolo di cinema. Anch'io volevo fare il regista: quand'ero piccolo scrivevo film incredibili, li giravo e poi li recensivo. Addirittura, improvvisavo lunghe interviste sconclusionate a un ormai esausto regista. Di volta in volta, impersonavo attori, giornalisti, sceneggiatori, amici d'infanzia. Raccoglievo e selezionavo materiale onirico per farne delle opere filmiche colossali, che duravano interi pomeriggi. Costruivo mitologie suburbane, annientavo carriere, impastavo casi di cronaca dal nulla, realizzavo servizi scandalistici in grado di rovinare l'ascesa di un attore promettente. L'interprete del mio nuovo film.

Era un gioco come un altro. Col tempo il cinema sarebbe diventato un luogo di sogno. Un piccolo paradiso oscuro. "Vivrò per le storie dei libri e dei film!", pensava il dodicenne Ivo, che organizzava serate affinché i compagni di classe si appassionassero a "Platoon", a "Il giorno più lungo", a "Salvate il soldato Ryan" o a "Full Metal Jacket". Non esiste cosa più bella che inventare storie e raccontarle. E i registi, oltre a questo, creavano mondi e uomini, perché tutti, estasiati, ascoltassero e guardassero le loro storie. Siamo figli di Omero. Figli degeneri.

Avessi potuto, avrei voluto scrivere "Per qualche dollaro in più". Scriverlo e, soprattutto, girarlo, proprio come ha fatto Sergio Leone. La stessa storia, la medesima ambientazione, le stesse atmosfere e gli stessi personaggi. I colori. Le sfumature. L'odore. La polvere. Avrei voluto fare "Per qualche dollaro in più".

I dizionari del cinema sono zeppi di memorabili aneddoti su Leone e la costruzione della sua opera, ogni film un capolavoro (come Stanley Kubrick, che pure elogiò la sontuosa grandezza del Nostro), ma ben poche restano le testimonianze attendibili, come sempre avviene, sul faraonico sogno di un uomo che volle farsi Re, e ci riuscì.

Si sprecano le dicerie, moltiplicandosi in fatti e fatterelli, leggende metropolitane e barzellette, ma se vuoi capire un film devi chiedere al pubblico, raccogliere informazioni tra gli spettatori, prima che le opinioni vengano "snaturate" dalla critica ufficiale. È giusto, anzi sacrosanto, acquistare e leggere i giornali, ma il giorno dopo. E le prime impressioni di "Per qualche dollaro in più" sembrano convergere tutte nella stessa direzione. Questo film è un capolavoro.

Nonostante la universalmente riconosciuta importanza del genere e la sua commovente bellezza, il cinema western americano ha vissuto momenti contrastanti: dai classici della prima metà del Novecento alla complessità (e al revisionismo) del presente, passando per il criticismo rivoluzionario degli anni '60 e '70. L'America ha avuto una nascita tumultuosa: è nata nel caos, e nel caos si è costituita e sublimata. Dopo la rivoluzione del 1770, la guerra di indipendenza e quella civile, dal 1865 gli Stati Uniti hanno conosciuto un periodo di relativa tranquillità, ma subito si sono accorti che era solo assenza di guerra, e che questa non significa affatto essere in pace. Infatti, la guerra non era finita, aveva solo cambiato pelle. Un conflitto esisteva, con le popolazioni indigene, i nativi, e ha finito col segnare indelebilmente la coscienza americana, la insanguinata coscienza di un popolo permanentemente in lotta contro tutto e tutti, dentro e fuori i confini di un mondo selvaggio.

La storia americana come granitico fondamento sul quale costruire la coscienza e modellare l'identità di un popolo, il cinema western.

Eppure, Sergio Leone è italiano. Egli non è più americano delle località dove ha girato i suoi primi western. Non è più americano degli incantevoli paesaggi dell'Andalusia, dove girò tra le scene più eccitanti di "Per qualche dollaro in più". Sergio Leone non è John Ford. I suoi western non possiedono le implicazioni etiche e politiche di quelli americani: per quanto spettacolari, "Il buono il brutto il cattivo" e "Per un pugno di dollari" non raccontano nient'altro che di un sacchetto di monete d'oro e una borsaccia colma di dollari. Non l'onore di "Mezzogiorno di fuoco", l'avidità de "Il tesoro della Sierra Madre" o l'istinto di sopravvivenza di "Ombre rosse". Nemmeno la vendetta de "Gli spietati". Non v'è alcun senso nobile nei western di Leone.

Ho letto qualcosa di simile su "Inglourious Basterds", capolavoro di Quentin Tarantino e uno dei film più assurdi e pazzeschi che io abbia mai visto. Ebbene, l'autore dell'articolo (di cui, purtroppo, non ricordo il nome) ha da recriminare su "un film incredibilmente vibrante e sbalorditivo, ma che riesce a rimuovere qualsiasi derivazione morale dalla più grande tragedia umana del ventesimo secolo". Riferendosi egli al dramma della Seconda guerra mondiale e, in particolare, all'Olocausto, ha criticato aspramente lo stile tanto brutale quanto disinvolto di Quentin Tarantino nel trattare l'argomento, ponendolo in relazione ai western sanguinari e immorali di Sergio Leone, che, dunque, nulla avrebbero in comune con l'eroica e solare genuinità dei Ford e gli Huston, dei Walsh e gli Hawks, degli Sturges e gli Aldrich.

In realtà, Sergio Leone ha fatto di più, molto di più. Oltre ad appropriarsi di un genere straniero, resuscitarlo e ricondurlo al massimo splendore, Leone ha mostrato a tutto il mondo l'altra faccia dell'America: la "faccia dispari del dollaro". Conta poco se un maestro assoluto come Akira Kurosawa lo abbia giustamente accusato di plagio. Per quanto si voglia sminuire, o perlomeno ridimensionare, la fatica dell'immenso artista italiano, sarebbe sleale accostarlo alle marmoree colonne del glorioso pantheon statunitense: Ford ci ha reso partecipi della storia, Leone del mito. Un mito grezzo, sudato e insanguinato. Un mito che è andato sporcandosi sempre più, da quando un certo Sam Peckinpah aveva deciso che era giunto il momento di rimescolare le carte, prima con "Sfida nell'Alta Sierra" poi con "Sierra Charriba".

Tutti conoscono "Per qualche dollaro in più". Tutti l'hanno visto. In molti lo reputano il capitolo più importante nella famosa e famigerata "Trilogia del dollaro", ma tutti lo hanno visto. È una mia opinione, ma credo che Sergio Leone (dopo la prova de "Il colosso di Rodi") abbia partorito solo figli perfetti. Nessuna pecora nera, solo capolavori. Dall'ultraviolento "Per un pugno di dollari" (inizialmente vietato ai minori di anni 18: "il divieto di visione per i minori di anni 18 è costituito dalla particolare configurazione spettacolare del film che, in un clima di esasperata e talora terrificante violenza, raffigura una ricorrente serie di crimini e massacri, descritti e raffigurati con crudo e sanguinario verismo") alla smisurata epopea criminale di "C'era una volta in America", l'opera addolorata e folgorante che gli costò la vita. In mezzo c'è spazio per dieci ore e passa di cinema leggendario, intessuto di guerre di secessione, rivoluzioni messicane e ferrovie lunghe continenti, da oceano a oceano. Un pò come l'arte del Maestro.

Se "Per qualche dollaro in più" è il film che avrei voluto fare, è perché questo è un film perfetto. Dopo una sigla da orbi, che stende al primo "colpo" e da sola vale mezza pellicola (la musica di Ennio Morricone non si può spiegare, devi ascoltarla), i primi trenta minuti esplodono in un rabbioso vortice di violenza selvaggia: Lee Van Cleef, Clint Eastwood e Gianmaria Volontè irrompono nella scena con tutto il fuoco che c'hanno in corpo. Le sparatorie non si contano, come anche le vittime e le pallottole. Sergio Leone ci mostra una terra ancora più lurida e bruciata di quanto avesse già fatto nel suo film precedente: la prima vittima del cacciatore di taglie Douglas Mortimer (Van Cleef) è un bandito con una faccia torva, i capelli rossicci e i denti di fuori. Finirà con un buco in mezzo agli occhi. Ed è soltanto l'inizio. Repentinamente si muoveranno Il Monco (Eastwood), scaricando il suo revolver su tre pistoleri, e uno dei più memorabili antagonisti di ogni tempo, El Indio, un Gianmaria Volontè in grazia di Dio... e del diavolo... che, dopo aver inondato di sangue la prigione da cui è fuggito con l'aiuto dei suoi desperados, rintraccerà il bounty killer che lo colpì alle spalle un anno e mezzo prima assicurandolo alla Giustizia, e non mostrerà alcuna pietà nemmeno per la sua giovane famiglia, perché solo in quel modo "Mi odierai al punto giusto": il duello che segue è fra i più alti momenti di cinema di ogni tempo...

Qui faccio i conti con me stesso, con i film che hanno segnato la mia vita, rivoltandola come un calzino. Qui c'è la caverna dorata che attendeva i miei passi stanchi, alla tenue luce del giorno o nel buio della notte. Qui c'è il farmaco dell'adolescenza perduta. C'è la droga, come le avide boccate dell'Indio, e lo splendore delle colline baciate dal sole. Qui si fanno i conti con i sogni e gli incubi di tutta una vita. Degli eroi e dei fantasmi. Di ciò che non saprei spiegare e di quello che non ho mai detto... e che vale più di mille parole.



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