Questa band dimostra forse più di ogni altra cosa, e senza facili e grottesche ruffianerie, quanto possa essere caustico ed oscuro il cammino di ogni essere umano lungo la linea della propria vita. Nel caso specifico, "miserevole". E non è proprio per nulla un eufemismo facile ma piuttosto un sottolineare, ancora una volta, e se ce ne fosse bisogno, la fatalità degli eventi razionali, solo quelli, nudi, spogliati di ogni loro ragion d'essere e di ogni loro significato ancestrale, e di quanto sia impossibile ed ineluttabile non sfuggire al proprio cruento e distorto destino, di quanto sia abominevole essere dotati di sentimento e sensazioni, e non solo d'istinti bestiali.
Non illudetevi, se state pensando che i concetti fin qui espressi siano solo sciocchezze buone nemmeno per un racconto d'appendice; state sbagliando e non di poco, e gli Shape of Despair sono qui, adesso, tra i solchi della loro crudele e atroce musica, per spiegarvelo nella migliore e tediosa maniera possibile.
Non c'è luce in questo album, se non qualche spiraglio abbozzato che si allontana dal color del nero che pervade ogni angolo, per rifuggiarsi in un poco permeabile grigio, e in un poco rassicurante minimalismo Dark e Ambient che non potrà non trasportarvi ancora più lontano dai meandri mefistofelici dei turpi e tristi intenti per poi ributtarvici a forza, e senza che voi possiate coltivare, in cuore vostro, una seppur flebile speranza di sopravvivenza.
Buio che genera soltanto altro buio. E non è una cosa bella, non di certo se si pensa che questi finlandesi, pur producendo e suonando una musica che non a caso viene denominata come "Funeral Doom" che potrebbe benissimo essere giudicata dall'alto al basso della produzione che perpetra, ed essendone tra i protagonisti indiscussi, colpiscono ad ogni passo sempre e soltanto dove fa più male, dove le ferite sono ancora acerbe di sangue che non vuole coagularsi, dove albergano lacrime ed inutuli grida perse in un silenzio di tomba raccapricciante.
Pur avendo abbandonato, ma solo in parte, quel gusto masochistico al dolore e alla sua interpretazione più cruda e tombale che caratterizzava il precendente "Angels of Distress", qui gli Shape of Despair decidono di abbandonarsi al lato sommesso e impastato di costernazione della paura, della morte, del, semplicemente, non essere che pulviscolo evanescente che si perde nell'umido sonno della nebbia autunnale, quasi sconfinando per certi versi nel Gothic più puro e calustrofobico, quello che, tanto per dire, fece la fortuna dei primi amatissimi Anathema e Paradise Lost.
Canzoni per dover essere costretti a ricordarsi di essere impotenti; macigni che rotolano nell'Inferno muto e silenzioso dell'indifferenza, a volte sbattendo fragorosamente contro il proprio nichilismo, a volte incespicando per sentieri intricati, soggettivi ed intimistici che però, alla fine, non mostrano che una sola via, quella che, inesorabilmente, porta al disfacimento morale e fisico, e che non contempla scappatoie di ritorno se non quelle, canoniche e sfibranti della Morte.
E' inutile e superfluo parlare delle canzoni trattandole una ad una. E' semplicemente fatica sprecata, perché questo lavoro rappresenta una massa monolitica ed omogenea di suono, in tutte le sue sfaccettature tinte sino all'inverosimile di pece e di spine avvelenate.
Anche le voci, i "grunts" come si dice qui, opera di Pasl Koskinen (ex Amorphis ed ex Ajattara) sono un corollario all'umore pervasivo, sottile eppur velenoso, della band, aggiungendo in più, quella dose esponenziale di alienazione necessaria a ché tutto sembri immobile, sfatto, finito, senza peso umano alcuno. Ma pure la voce femminile (opera di Natalie Koskinen) che, in qualche frangente fa da contrappeso all'orrore insopportabile (come in "Still-Motion"), ne è parte integrante. Non a caso, a mio parere, gli episodi più riusciti sono proprio quelli in cui l'improbabile duo si mischia e confonde i propri caratteri, non sapendo mai dove inizi l'uno e dove finisca l'altro ("Curse Life"), né dove andranno a parare le altri parti strumentali ("Illusion's Play"), e nemmeno che cosa, precisamente, vogliano far trasparire chiaramente nella loro lentissima e abominevole cadenza.
Chiaramente no, perché poi invece, tra le righe numerosissime e svirgolate dei lunghissimi brani (e non potrebbe essere altrimenti), si capisce benissimo a che cosa si tenda sempre: il Limite; il sottile confine che demarca l'inizio senza parola e senza orecchi e la fine tragica e arzigogolata di ogni cosa mobile o immobile del mondo.
Niente compromessi, dunque. Niente che possa somigliare a rivalsa o voglia di sperare, ancora una volta, solo incubo e destino, a ricamare una favola nera e crepuscolare che dura un'ora buona e che sradicherà chi l'ascolta da ogni sicurezza e da ogni serenità futile e passeggera. Lasciatevene pervadere. Ne varrà davvero la pena, e magari vi consumerete l'anima anche voi nello struggervi e trastullarvi in sogni di creature amorfe e senza parvenza di collera, pensando sorridendo che siano solo, appunto, immagini partorite dalla vostra fantasia, ma che, appena aprirete gli occhi, riconoscerete come vostre, guardandovi allo specchio del vostro carattere, e constatando, alla fine, che tanto è inutile desiderare, amare, sperare, ridere e gioire, tanto il tempo, prima o poi, vi porterà all'immancabile destino di cui gli Shape of Despair sono gli anfitrioni.
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