C'era una volta un ragazzo di nome Niklas Olsson, in arte Kvarforth.
Era la seconda metà degli anni novanta, e questo ragazzo, oltre a piacergli tanto Burzum, aveva un pallino: quello di concepire e scrivere una musica che fosse in grado di calamitare energie tanto negative da indurre al suicidio chiunque ne venisse a contatto.
Al di là dei proclami “altisonanti”, con i suoi Shining (il monicker non si riferisce al romanzo di Steven King né all'omonimo film di Stanley Kubrick, ma semplicemente significa “il percorso verso l'Illuminazione” - date le premesse di cui sopra non mi sembra il caso di stare a specificare il concetto), il nostro svedesino contribuirà pesantemente a dar vita ad un nuovo percorso all'interno della musica estrema, che non a caso verrà appellato “depressive”, o “suicide” black metal che dir si voglia. A dire dello stesso, sembra che diverse persone abbiano posto fine alla propria esistenza proprio a causa della sua musica, ma si sa che oltre a scrivere buona musica ad Olsson piace dire belle stronzate.
Non è certo una simpatia Olsson, gli piace provocare e giocare con temi scabrosi, e non ci è lecito sapere quanto ci sia o quanto ci faccia. Certo, vederlo dal vivo spegnersi le sigarette sulle braccia o tagliuzzarsi con una lametta fino a sanguinare vien da pensare che tutte le rotelle a posto non ce l'abbia per davvero (è lui stesso a proclamarsi malato di mente – altra probabile stronzata – nonché fervente sostenitore dell'autodistruzione in tutte le sue forme e con tutti i mezzi possibili, alcool e droghe inclusi). La sua spocchia non lo aiuta, no, non è proprio simpatico il ragazzo, ma probabilmente fa tutto parte di un programma, e Olsson, in arte Kvarforth, evidentemente se ne intende di marketing.
Bene, chiuso il sipario, fuori i pagliacci. Meno male che c'è la musica. Con il tempo, vedremo, gli Shining intraprenderanno un cammino che li affrancherà in modo progressivo dalle forme espressive assunta alle origini (è l'autore stesso a sostenere che non avrebbe avuto molto senso rimanere ancorati a certi stilemi stilistici quando questi sono stati stravolti da banducole che li hanno impropriamente adottati, tradendo poi lo spirito originario... ed allora tanto meglio cambiare, e questo non può che rendergli onore, nonché dimostrare una ferrea coerenza, laddove il concetto di autodistruzione a lui tanto caro si viene a ripercuotere sul suo stesso percorso artistico, volto a minare le stesse premesse da cui il tutto era partito). Proprio perché gli Shining di oggi ci appaiono così diversi, è importante non dimenticare gli Shining “ancora non auto-distrutti” dei primi due album, ed in particolare quelli di questa seminale opera prima, uscita nell'anno 2000, che porta il nome di “Within Deep Dark Chambers”.
Se con il successivo “II – Livets Andhallplats” i cliché stilistici del depressive black metal vedranno una sistematizzazione tanto che l'album finirà per divenirne il manifesto, “Within Deep Dark Chambers” suona ancora irrimediabilmente black, seppur in esso si respiri già la maleodorante essenza del genere in divenire. Il linguaggio parlato è quindi ancora quello di un black metal feroce di evidente scuola burzumiana, dalla quale si traggono principalmente l'agonia vocale, un talento melodico che volge a scenari di una mestizia assoluta, ed uno sforzo introspettivo che ha del biografico.
Ma fra una staffilata e l'altra principiano a farsi largo i poderosi rallentamenti (sempre misurati da una doppia cassa che sembra combattere contro il vento) e le incursioni di un ottenebrante doom che si concilia che è una bellezza con lo sfrigolare e il marciume al tremolo delle chitarre tipicamente black metal. In altre parole, pur pagando dazio alla mancanza di esperienza, Kvarforth, con uno stile ancora non così personale, riesce con efficacia a mescolare l'ossessività tipica della poetica burzumiana, la monumentalità e l'imponenza delle opere uscite a nome Burzum (i riff sinuosi e i tempi marziali richiamano continuamente alla mente il Conte più maestoso di “Det Som Engang Var” e “Hvis Lyset Tar Oss”, benché in una versione appiattita), in un contesto di violenza sonora che conserva i toni minacciosi e la carica epica del black metal classico a firma Mayhem, Immortal, Emperor e Darkthrone.
Sei tracce di durata elevata (fra i sei e i dieci minuti) in cui la batteria è ancora chiamata a dettare legge fra furiosi blast-beat e sontuosi tempi medi, i binari ideali su cui può scorrere fluente la chitarra di Kvarforth all'apice della propria ispirazione.
Del resto l'album racchiude le idee sedimentate nei quattro anni precedenti, in esso quindi troviamo condensate soluzioni che sono frutto di anni di lavoro: quella consistenza di contenuti che si ha solo al cospetto dell'esordio di una band che ha qualcosa da dire. Non mancheranno certo le ingenuità (basti guardare ai titoli - “Reflecting in Solitude” e “Stonelands” sono solo due esempi); copiose sono le sbavature in sede di arrangiamento, effettacci pacchiani spennellano di puerilità diversi passaggi, mentre l'integrazione fra partiture elettriche ed acustiche in particolare designa ancora una immaturità esecutiva alquanto elevata; tuttavia i suoni corposi e potenti (dove fra l'altro svetta un titanico lavoro di basso) ovviano alle eventuali carenze dovute alla mancanza di esperienza, mentre l'immediatezza, l'impulsività che derivano dalla stessa è l'altra faccia di medaglia che rende “Within Deep Dark Chambers” un grande album, il migliore degli Shining secondo il parere di chi scrive, il migliore anche per chi l'ha scritto, stando alle dichiarazioni di Kvarforth.
Inutile fare un track-by-track: le composizioni, infatti, si espandono spesso seguendo non-strutture che supportano il feeling del momento piuttosto che stimolare la mente dell'ascoltatore, e tutte si compongono dei medesimi ingredienti (parti veloci alternate a lancinanti rallentamenti): tutto l'album si regge su riff azzeccatissimi e sul dinamismo affettato ed elementare della batteria che ama cambiar spesso registro, spesso assestandosi su possenti tempi medi che in più di un frangente ricordano i maestri Immortal di “Battles in the North”. Insomma, i riferimenti sono i soliti e sono tutti eccellenti, ma in questo contesto di “copia/incolla” del meglio che può offrire il black metal norvegese degli anni novanta già spiccano la personalità e le buoni doti di songwriter che Kvarforth dimostrerà in futuro.
Beninteso, Burzum ha inventato tutto, Burzum è un poeta, Burzum è di un altro pianeta; Kvarforth invece è un onesto artigiano, un tamarrone dell'estremo all'ultimo grido in un contesto in cui il vecchio Satana non fa più paura neppure ai bimbi dell'asilo e i vichinghi hanno francamente rotto i coglioni: è il black metal del terzo millennio, bellezza!
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