Settimo capitolo della saga Shining, una band che ha saputo conquistare un'invidiabile longevità nel panorama extreme-metal grazie ad una costante evoluzione che a partire dal degradante depressive-black metal degli esordi ha traghettato i Nostri verso opere sempre più ragionate e formalmente raffinate.

Ma questa volta il bersaglio non viene centrato: gli Shining per la prima volta non stupiscono, nonostante la bellissima copertina metropolitana (“pasoliniana” oserei dire, diretta discendente degli scenari industriali ritratti in quella del capitolo precedente) potesse far presagire un ulteriore passo in avanti in quello che è stato fino a ieri un cammino privo di inciampi.

Ma “Fodd Forlorare” non significa “Accattone”, bensì “Nati Perdenti”, andando a rimarcare il fatto che nella musica degli Shining non c'è un bel niente di sociale, ma solo una (ormai fiacca) predisposizione a grattare il fondo torbido di un barile oramai quasi svuotato, al quale tuttavia amano attingere molte band che amano parlarci della derelitta condizione della “macchina umana”.

Il canovaccio, beninteso, è quello dei capitoli terzo, quarto e quinto, i quali avevano costituito la fase della maturità artistica per Niklas Kvarforth, nonché il nocciolo da cui si era sviluppato il nuovo corso della band, sempre più interessata ad espandere il proprio suono sull'onda di tinte progressive, in linea con quanto combinato dai conterranei Opeth. E non è un'eresia vedere oggi gli Shining come ad una goffa versione degli Opeth in salsa black metal, anche se di black metal oggi se ne sente veramente poco in un album degli Shining.

Se già le prime avvisaglie erano state rinvenute nel non del tutto convincente “Klagopslamer”, che comunque aveva mostrato delle soluzioni degne di nota e delle aperture a nuove sonorità, questo lavoro del 2011 (pluri-rimandato per problemi con la label) ne riprende pari pari le mosse (anche se a dire dello stesso Kvarforth questo ultimo suo album si lega direttamente a “Hamstad”, visto che “Klagopsalmer” era stato un lavoraccio prodotto solo per onorare gli impegni con la vecchia etichetta), normalizzando il percorso ormai intrapreso da anni verso una musica sicuramente ben confezionata, ma priva di mordente, incapace di individuare un soddisfacente punto di equilibrio fra il messaggio forzatamente “depressive” e concessioni ad una orecchiabilità che farà certamente drizzare i peli sulle braccia ai fan della prima ora (ammesso che essi siano ancora disposti a seguire la parabola discendente della band).

L'opener "Fortvivlan, Min Arvedel" tuttavia non dispiace, portandosi dietro l'inconfondibile marchio della band, ma sembra finire sul più bello in un fading precoce; "Tiden Laker Inga Sar" desta dal torpore per la sua sparata centrale che ci riporta ai fasti del passato, ma è evidente che qualcosa non quadra.

Primo: il cantato pulito di Kvarforth, utilizzato in forma palesemente eccessiva, è irritante e a più riprese finisce per ricordare, a voler essere proprio cattivi, i chorus ruffiani di gente tipo Linkin Park. Ma anche le parti in growl sono spesso ridicole ed impacciate e l'impiego della lingua svedese certo non aiuta. Per non parlare poi dei colpi di tosse, dei conati di vomito e dei versacci assortiti che Kvarforth ama propinarci da troppi anni ormai, ma che oggi risultano scelte più risibili che mai se pensiamo ai suoni cristallini e agli arrangiamenti accuratissimi.

Secondo: la band che si porta appresso oggi Kvarforth non rende un cazzo bene. Si parla di musicisti sicuramente dotati e precisi nell'esecuzione, che però suonano freddi e non sembrano possedere quella sensibilità che permette di innestare soluzioni anche extra-metal nel percorso evolutivo degli Shining, che invero regrediscono ad un metal patinato e piacione, decisamente influenzato dal metal dello scorso decennio. Le due asce Fredric Graby e Peter Huss, per esempio, spesso si concedono assoli che hanno un insopportabile sentore pomp/classic metal/rock oriented, imperdonabile se si pensa ad una band che ha il buon gusto di costellare il booklet interno di immagini che ritraggono neonati morti in bare bianche (ohibò!). Il drumming del session Richard Schill è anonimo, scolastico, prevedibile, il tutto calato in uno scenario che strizza maliziosamente l'occhio al music biz, introducendo un groove ruffiano in cui riff thrash e il pull-muting di scuola death metal d'oltreoceano flirtano con i passaggi black'n'roll che a partire dal capolavoro “The Eerie Cold” hanno guadagnato spazi sempre crescenti.

Meno male che si conservano le patentesi acustiche e cameratistiche (piano ed archi) a consolidare un sound che continua a prediligere un mood artificiosamente malinconico, pur non bissando quella sensazione di baratro che aveva caratterizzato i lavori del passato. La stessa presenza di una ballad dalle soffuse tinte folk-progressive (“I Nattens Timma”, per soli voce, pianoforte e chitarra acustica) non riesce a sorprendere, nonostante si tratti di un importante punto di approdo per una band che era nata all'insegna del black metal più violento, alienato e privo di compromessi.

La conclusiva “FFF” cerca di appianare le distanze con i lavori predenti, ed il finale a base di hammond non è neppure male, eppure i quarantadue minuti risicati di questo album scorrono via come un bicchiere di aranciata, lasciando però l'amaro in bocca per l'occasione mancata di aggiungere un tassello almeno dignitoso ad un percorso che pareva immune da sensibili défaillance di ordine qualitativo, ma soprattutto per l'idea che quest'ultimo lavoro degli Shining sia stato un po' tirato via, buttato giù senza troppa convinzione e non animato da una ragion d'essere (nemmeno quella di perfezionare una formula già ampiamente collaudata).

Peggio ancora: non solo siamo al minimo sindacale, ma l'album ha il non-pregio di mostrare i soliti lati negativi che da sempre caratterizzano la band, senza presentare quell'essenziale controparte (ispirazione? Innovazione? Atmosfera?) che fino a ieri aveva appianato i difetti e pareggiato i conti. Con il risultato, tuttavia, di peggiorare nel complesso l'immagine di un artista che certo non brilla per simpatia.

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