"In Giappone non esiste violenza nella vita quotidiana. I film americani sono violenti e realistici perché in America un ragazzino può benissimo prendere una pistola, andare a scuola e sparare ai compagni. Questo non accade in Giappone dove la violenza è sistematicamente rimossa.Gli impiegati giapponesi si alzano alla mattina, salgono su un treno affollatissimo, viaggiano schiacciati uno all'altro. Vanno in ufficio e si inchinano al capo per otto, dieci ore. Poi tornano a casa e si inchinano alla moglie. Ora dopo ora, accumulano un'incredibile quantità di rabbia, eppure la loro violenza è sempre trattenuta. Solo il dolore ci rende coscienti di avere un corpo" (Shinya Tsukamoto, 1995)

L'uomo ha perso, è uscito sconfitto dallo scontro con la metropoli. Non gli resta che rassegnarsi alla propria condanna di apatia, da scontare in gabbie di cemento alte quanto il cielo, tra scrivanie di compensato usate per assegnare a ciascuno il suo posto, e strade, metropolitane, corridoi e scale mobili che dovrebbero poterlo condurre ovunque, ma che invece lo riportano sempre allo stesso punto.

Tsuda è solo uno dei tanti perdenti: ogni giorno lo stesso ufficio, lo stesso rientro a casa, lo stesso divano, la stessa televisione, la stessa fidanzata (la bella e pacata Hizuri) e il suo "Come va?", "Tutto ok, sono solo un po' stanco".

Fino alla fatidica domanda: "Da quant'è che non facciamo l'amore?"

Risposta: "Perché?"

Tutto cambia quando arriva Kojima: compagno di Tsuda ai tempi del liceo, oggi pugile professionista, che, con i suoi muscoli duri e nervosi e la sua faccia da demone, sembra l'incarnazione di tutto ciò che Tsuda ha smesso di essere, di quella parte violenta e animalesca che la quotidianità metropolitana è riuscita a sedare. Invaghitosi di Hizuri, il pugile si inserirà a forza tra gli automatismi della coppia, sovvertendone gli equilibri.

In "Tokyo Fist" ('95, primo lungometraggio di Tsukamoto dopo i due "Tetsuo"), la violenza è, anzitutto, presa di coscienza del proprio stato di apatia, del proprio inquadramento in "ruoli sociali" che ci si è arresi a recitare: il pugno che spezza naso e zigomi, che fa sgorgare il sangue come un fiume in piena è anche un colpo assestato a quella diga fatta di freni inibitori, convenzioni e "normalità" su cui Tsuda e Hizuri hanno fondato la propria vita e il proprio rapporto. Tale presa di coscienza, tuttavia, sembra quasi non potersi limitare alla sfera mentale dei personaggi, ma dover coinvolgere anche il loro corpo, inteso come materia da modellare per rendere tangibile e visibile il proprio mutato approccio all'esistenza. Come se da quel risveglio, da quel rinnovato "bisogno di sentirsi vivi", derivasse l'urgenza di intervenire sul proprio fisico, per modificarlo e farlo evolvere, fino a renderlo fedele rappresentazione della propria anima ritrovata.

Tsuda, umiliato e abbandonato, convoglia la propria paranoica sete di riscatto in estenuanti allenamenti di boxe, per rendere il proprio corpo strumento con cui realizzare i propri desideri omicidi. Hizuri, da moglie sottomessa, si ritrova preda di pulsioni nuove e morbose, cui da sfogo mortificando la propria carne ancora più in profondità, quasi "tetsuoianamente", sottoponendosi ad amplessi ballardiani di piercing sempre più invasivi. Ma è addirittura lo stesso Kojima che, da mero catalizzatore della reazione che ha condotto al cambiamento i due protagonisti, diviene vittima della loro mutazione: ne rimane sconvolto e ammaliato, affascinato e intimorito, e, a sua volta, prende coscienza di essere sempre stato vittima delle proprie paure, di non essere mai riuscito del tutto a liberarsi dei propri incubi, di non essere mai stato completamente se stesso.

Tsuda, Hizuri e Kojima finiscono così per essere tre minuscoli bruchi metropolitani che hanno sempre vissuto nell'attesa di un "qualcosa" (un giuramento del passato che non si è avuto la forza di rispettare, un amante forte e rude, diverso dal proprio fidanzato, il rischio di morire sul ring), che giungesse a rompere quel bozzolo di immobilismo e apatia che lentamente ha ricoperto le loro esistenze. Ecco allora che il sangue che scorre sui loro visi, gli ematomi che ne deformano i lineamenti, gli occhi gonfi e tumefatti paiono quasi essere gli stadi di un processo di crescita e mutazione che li renderà finalmente liberi e consapevoli. Solo allora le maschere che hanno fino ad oggi indossato potranno lasciare posto ai volti di quei demoni che loro stessi, nell'intimo, sono sempre stati.

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