La carriera di Sia è una delle più paradossali della storia del pop recente: songwriter di successo per artisti del calibro di Rihanna e Katy Perry, quando si mette a lavorare per sè stessa non riesce a conseguire gli stessi meriti, tanto che le uniche due hit radiofoniche che portano il suo nome tra quelli degli esecutori sono i due duetti con David Guetta, "Titanium" e "She Wolf". Con la speranza di entrare nell'elitè del pop, questa volta da cantante, l'australiana si accinge a pubblicare il suo sesto lavoro.

Purtroppo "1000 Forms of Fear" risulta inadeguato a questo obiettivo. Il singolo di lancio "Chandelier" rappresenta perfettamente questo album: un lampadario che oscilla a destra e sinistra, con il successo da una parte e il flop totale dall'altra. Di per sè "Chandelier" è più dalla prima, grazie soprattutto a un ritornello pregno di acuti di pregevole fattura e una base melodica valida a sostenere la voce particolare della Furler, così come "Big Girls Cry", altra ballata ma più nostalgica e orecchiabile nonchè molto più rispettosa dei canoni tradizionali del pop moderno. "Burn the Pages" è un brano più elettronico dei due precedenti, ma spicca comunque per una melodia catchy, che ricorda vagamente quelle di Katy Perry. "Eye of the Needle" è una canzone invece piatta, la peggiore sentita finora (ma non di tutto il disco), risente di una calma esagerata e dissonante rispetto alla base. Proseguendo l'ascolto di "1000 Forms of Fear" sarà quasi impossibile non rimanere spiazzati a sentire le prime note di "Hostage", un pezzo tendente all'alternative rock e che, nonostante la voce di Sia, per niente a proprio agio su questo tipo di sound, riesce a essere un allegro e soddisfacente momento di spicco all'interno del lavoro. Entusiasmo spezzato dalla successiva "Straight for the Knife"; la traccia non sarebbe male se a cantarla ci fosse una Lana Del Rey qualsiasi, tanto che il paragone con le sonorità del suo "Born to Die" sfocia nell'imbarazzante. Il problema è che la voce di Sia non è quella della newyorkese, e questo rende il pezzo decisamente scialbo, privo di alcun punto di interesse e noioso. "Fair Game" inizia con tutte le pretese di una canzone dalla quale si aspetta un'esplosione dopo il ritornello, ma quello che doveva diventare un brano carico sui livelli di "Hostage" si tramuta in una canzone sonnifera che solo dopo un break quasi psichedelico trova il supporto, totalmente fuori luogo, della batteria.

Canzone perfettamente dimenticabile, ma non c'è fine al peggio, e neanche il tempo di riprendersi ed ecco che dalla nenia inarrestabile di "Fair Game" si passa alla noia di "Elastic Heart", la cui introduzione promette male, con una stranezza che non incide come dovrebbe e un chorus che tra back vocals e voce robotica onnipresente trasuda Chaos da tutti i pori. "Free the Animal" e "Fire Meet Gasoline" riportano l'album a livelli accettabili con melodie azzeccate e refrain validi. Di quest'ultima canzone si può notare la somiglianza con "Chandelier", come se la base di partenza per costruirla sia stato proprio il primo singolo estratto da questa fatica. "Cellophane" è un'altra song oltrepassabile, che strizza l'occhio all'indie pop e ha un ritornello molto particolare, ma non incide affatto, rimanendo sotto le aspettative. L'album si conclude con "Dressed in Black", una bella traccia che però ha la pecca della durata troppo ampia (sei minuti e quaranta e si ripete in continuazione il ritornello per gli ultimi tre minuti) e alla lunga stanca. Stendiamo un velo pietoso sul songwriting, che doveva essere, per un'artista come Sia, il punto di forza del lavoro ma che dimostra come ormai anche lei abbia finito le idee, a forza di donarle agli altri. L'unica canzone degna di nota sotto questo aspetto è "Chandelier", che di fatto è il pezzo migliore del lotto. Dimenticabili dal punto di vista delle liriche tutte le altre tracce, con particolare menzione a "Elastic Heart", che già solo dal titolo lascia intendere la carenza di idee pervenuta alla Furler in fase di scrittura dei brani di questo album.

Come tutti i lampadari quando finiscono di oscillare, al termine dell'ascolto "1000 Forms of Fear" si colloca non dalla parte del successo nè da quella del flop, bensì esattamente in mezzo. E' un disco perfetto nel suo essere mediocre, un fallimento nell'ambire al successo. Inutile dire che Sia ci deve ritentare, ma ormai sembra destinata a fare la songwriter di successo e a tenersi gli scarti tutti per lei e farne album, con la speranza che un giorno a qualcuno baleni l'idea di passare un suo singolo in radio e lo faccia diventare una hit. L'australiana si dice contraria al successo, ma in fondo anche lei, come tutte le cantanti e non solo, sogna di vedere un suo pezzo al numero uno delle classifiche di tutto il mondo. Non si sa se da quel caschetto senza volto possa uscire una futura stella del pop, sta di fatto che sei album e trentanove anni sono cifre che cominciano a pesare non poco, e "1000 Forms of Fear" il passo avanti non lo garantisce nè lo azzarda.

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