Non è il miglior film al quale ha partecipato, ma questo è dovuto al fatto che sono state ben poche le opere mediocri alle quali ha ceduto negli anni (ogni riferimento a "Mission Impossible III" è voluto, confermato e conficcato nello schermo con un chiodo da bara). Non è nemmeno la sua miglior interpretazione e questo non fa che rendere maledettamente amara questa grigia giornata invernale. Philip Seymour Hoffman l’ho conosciuto, ancora minorenne, sul grande schermo in quel capolavoro de “Il Grande Lebowski”: praticamente il primo film che ricordo di avere visto al cinema e che mi ha folgorato. Da allora sono inciampato spesso in questo pingue, malinconico e triste attore dal talento smisurato. Grazie a debaser ho scoperto da poco una perla come “Happiness” (grazie "Eve"), e se posso vi consiglio il semisconosciuto “La famiglia Savage”. Credo che ce ne siano tante altre, di opere di livello, disseminate qui, quo e là in venti anni di denso esercizio della professione. La sua è stata una carriera ricca e mi dispiace davvero molto che sia finita con una siringa piantata nel braccio, in arresto cardiaco, sul tappetino vicino al cesso di casa a Manhattan.

E’ proprio questa immagine che mi ha spinto a scrivere velocemente ed in modo molto sintetico, perché più che una recensione è uno scarno tributo, di “Onora il padre e la madre” di Sidney Lumet. In più di una scena del film, infatti, Hoffman si fa piantare un ago nel braccio alla ricerca di un’oasi di chimico benessere da frapporre al progressivo e inevitabile crollo di una vita.

Due fratelli navigano in pessime situazioni finanziarie. Il più vecchio, cinico ed intraprendente dei due ordisce un machiavellico piano per derubare la gioielleria dei genitori circuendo come complice il timido, inetto e emotivo fratello minore. Senza voler svelare nulla il film con una pulita e classica regia, fredda e distaccata, fotograferà il cinismo e la falsità dell’essere umano, la potenza del caso nel determinare ed intrecciare gli eventi e la sofferenza allo stato più puro esaltata da un cast con due ottimi attori (Ethan Hawke e Albert Finney) ed uno straordinario.

E’ un film lineare, nello sviluppo della trama nonostante i continui flashback, e tremendo perché, per quanto non lo si voglia ammettere, affonda le sue fondamenta nella realtà che possiamo sfogliare o cliccare con cadenza assai frequente. Non ti puoi fidare nessuno, nemmeno del tuo stesso sangue.

In queste ore tv, web e carta stampata stanno ricordando Hoffman citando quasi esclusivamente la statuetta vinta nel 2006 nella trasposizione cinematografica di “A sangue freddo“, (il capolavoro letterario di Capote che vi consiglio caldamente di leggere, possibilmente più prima che poi). Sono convinto del fatto che Hoffman debba essere ricordato come attore per la media qualitativa del suo lavoro che si può apprezzare anche nelle opere meno blasonate. Perché una statuetta l’hanno vinta perfino Nicolas Cage e Halle Berry, ma una filmografia parca di passi falsi e pregna di tante convincenti interpretazioni è un lusso che ben pochi possono vantare a soli 46 anni.

Da egoistico amante del cinema ti dico grazie infinite volgendo lo sguardo triste indietro; contemporaneamente, con un po' di magone incastonato in gola, mi viene da dirti vaffanculo per quella montagna di opere di livello che ci avresti dovuto e potuto regalare ancora. Una perdita sanguinosa per il cinema contemporaneo.

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