“Suonare due volte prima di ascoltare” … è questa l’ avvertenza riportata sull’etichetta del vinile di questo omonimo esordio dei newyorkesi Silver Apples. Le mele argentate consistono nell’atipico e bizzarro duo formato dal batterista (multi-strumentista) Danny Taylor e dall’ingegnere vocale Simeon. Quest’ultimo ha inventato e “suona” il Simeon, uno strano aggeggio composto da nove oscillatori audio e ottantaquattro manopole di controllo, come recita l’inner sleeve “gli oscillatori ritmici e quelli principali si suonano con le mani, i gomiti e le ginocchia, mentre gli oscillatori basso vengono suonati con i piedi”. L’effetto che esce da questa bizzarria è una specie di “theremin multiplo”, un orgasmo di suoni che sembrano provenire direttamente dalle pieghe dell’universo, adagiati sulle frenetiche ritmiche di Taylor e con la voce narcotizzata di Simeon a comporre un mosaico davvero indescrivibile. I brani più incredibili del lavoro sono la schizofrenia tribaloide di “Dancing Gods”, dove i Suicide Martin Rev ed Alan Vega hanno appreso come (de)comporre musica, la frenesia drum ‘n’ bass di “Lovefingers” (no, non sono impazzito, ascoltare per credere), il delirio compulsivo dell’ iniziale “Oscillations”, le polverose vibrazioni sintetiche di “Dust” o la piéce kraut ante-litteram “Velvet Cave”, che brucia la partenza dei Kraftwerk o le future intuizioni di Neu! e Cluster.

Tutto ciò era inspiegabilmente impossibile nel 1968, tanto che perfino il grande pubblico si accorse di loro e “Silver Apples” fece capolino nella Top 100 di Bilboard; ma non fatico a credere che molti degli acquirenti (di allora) abbiano abbandonato dopo il primo lato l’idea di arrivare all’ascolto di questo autentico capolavoro.

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