Travolti dall'improvviso e inaspettato successo di "The Sounds of Silence", Paul Simon e Art Garfunkel si erano precipitosamente riuniti nel 1965 per registrare un album che portava lo stesso titolo di quella canzone, ottenendo il medesimo trionfo di critica e pubblico. Grazie al songwriting di Simon, affermatosi rapidamente come uno dei più talentuosi compositori del momento, all'algida voce di Garfunkel e al tocco elettrico -molto Byrds di Mr. Tambourine Man, molto Dylan di Highway 61, ma d'altra parte l'anno che corre è quello, il 1965- donato sapientemente dal produttore Bob Johnston, il duo era diventato una stella di prima grandezza nel neonato firmamento folk rock americano.

Peraltro ai due la stessa etichetta folk rock stava un pò stretta, in particolare a Simon, che se folksinger è stato, lo è stato di una variante decisamente peculiare e poetica, ed è così che all'inizio del 1966 dovendo dare inizio alla lavorazione di un nuovo album, si trovano davanti ad un bivio, se continuare cioè sulla strada dell'album precedente, dai pezzi folk elettrificati, o cambiare, almeno in parte, scelte, musicali e non...

Ecco allora che la poetica di Paul consacra come figura centrale delle proprie liriche un uomo, in cui senz'altro si riconosce; un uomo giovane, cresciuto in città, ancora senza una direzione, un senso della vita ben preciso, alla ricerca costante di punti di riferimento. Un giovane che si autoanalizza scoprendo la frammentarietà interiore come condizione umana, che rifugge da chi ha sempre una verità in tasca, dagli intellettualoidi che discutono del nulla, dal falso mito del progresso e dalla massificazione mediatica. Li rifugge, ma non solo, li irride, li graffia con il sarcasmo e l'ironia, le uniche armi che possiede. Ma dietro a queste armi, si nasconde una persona insicura, incerta, sognatrice, l'unica donna che riesce ad amare è ideale e idealizzata, come quella di un trovatore medioevale, non la conosce ma sa che prima o poi la scoprirà. Cerca piaceri semplici ma veri, sinceri, l'affetto e il calore di un focolare domestico, piuttosto che quello misero e precario della celebrità. Per sorridere ad un presente spesso grigio si rifugia nell'amicizia, quella pura ed autentica, quella dell'infanzia (che è poi quella con Garfunkel, per l'appunto), si aggrappa ai felici ricordi di un'età già lontana. Un uomo che come quello contemporaneo fatica a farsi capire da chi gli stà attorno, e se per interagire con gli altri scrive sui muri della metropolitana, che c'è che non va, si chiede Simon. Sarà un alienato, diranno gli altri, ma forse, ci vuol dire Paul, ad essere alienata è tutta la società.

 Ma "Parsley, Sage, Rosemary and Thyme" non è solo poesia, è anche musica.

In "Scarborough Fair/Canticle" e "For Emily, Whenever I May Find Her" si riscopre l'antica tradizione folk inglese, appresa da Simon l'anno precedente durante un soggiorno in Inghilterra in cui ebbe modo di conoscere e suonare con musicisti illustri come Davy Graham (e durante il quale furono scritte parecchie delle canzoni di questo album e di "Sounds of Silence"). Ma si guarda anche a casa propria, all'orticello newyorkese, come dimostrano quei deliziosi quadretti alla Broadway di "Cloudy" e "The 59th Street Bridge Song". O si esplorano sonorità western quasi morriconiane, come in "Patterns". Ma non mancano pezzi più elettrici, che però sono anche forse i meno ispirati e i più forzati, con l'eccezione della tenera "Homeward Bound", uno dei gioielli dell'album.

Se "Sounds of Silence" fu l'album del successo mondiale, "Parsley, Sage, Rosemary and Thyme" fu quello della consacrazione, che diede a Simon and Garfunkel quell'aurea di rispettabilità artistica tale da permettergli, in tempi in cui si doveva sfornare due album all'anno, di farne uscire uno ogni due. Furono la colonna sonora di una generazione, nella vita e al cinema. Per noi, sono gemme di un'epoca passata, che raccontano pensieri, sensazioni, storie di due amici newyorkesi degli anni Sessanta in fin dei conti non troppo diverse dalle nostre.

Carico i commenti...  con calma