Una volta raggiunto il tetto del mondo, cosa rimane da fare?
Cadere ovviamente.

C'è chi ruzzola con stile, si rialza, si spolvera e riprende a salire, c'è chi invece, come i Simple Minds, tocca terra quando ancora sogna di volare. "Once Upon A Time" è il vuoto della caduta. Non stiamo parlando di un album scadente, anzi, è proprio la sua qualità esplicita a dare l'illusione del volo ai ragazzi di Glasgow, reduci da un percorso musicale complesso e travolgente, dai confusi inizi di "Life In A Day" all'apice creativo di "New Gold Dream"; qui i nostri eroi non si accontentano di aver creato un capolavoro osannato da critica e pubblico. Vogliono ottenere il suono che hanno nelle loro semplici menti: potente, limpido, largo.

Lo raggiungono negli otto brani di questo album, dedicati alla platea più vasta possibile, quella europea che apprezza il new-wave-sound, quella americana che canticchierà l'inno tipo "Alive And Kicking". Ed in questo cercare di accontentare tutti, compresi sè stessi, i Simple perderanno di vista il nocciolo creativo e disperderanno le loro energie in concerti ed eventi sempre più imponenti. Ma visto da fuori, in modo asettico e decontestualizzato, l'album ha tanto di buono, segno che la qualità dei vari Kerr, Burchill e McNeil non è acqua.

Dalla title-track a "Wish You Were Here" le idee compositive si snodano libere, mentre "Ghostdancing", "Sanctify Yourself" e "Oh Jungleland" sono energia pura; l'intero album è un intreccio di soluzioni di chitarra e sinth, con il cantato a fare da accompagnamento, ma sono le percussioni  di Mel Gaynor a dominare il suono. Un inno alla creatività a briglia sciolta, alle infinite possibilità della musica, che però fa da preludio al vuoto inventivo e al distacco di McNeil, dopo l'uscita dell'ottimo, ma freddo, "Street Fighting Years" 3 anni più tardi.

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