Nel 2004 assistiamo ad un piccolo cambio, o meglio, ad una nuova entrata nella formazione dei Sirenia. La rossa Henriette Bordvik si aggiunge in pianta stabile alla band ma vi resterà poco più di un anno. Il 2005 sarà infatti testimone dell'abbandono della band da parte della cantante per divergenze artistiche nei confronti Morten Veland (una decisione, per chi scrive, ben poco biasimabile).
L'album prende il via con una scelta abbastanza controcorrente: lo spazio affidato alla nuova entrata è veramente troppo poco, anzi, per quando riguarda la prima traccia è addirittura limitato ad un break centrale di pochi secondi. Notiamo però alcuni minimali elementi di novità nel sound della band: le chitarre sembrano essere state curate maggiormente in fase compositiva rispetto alle tastiere e i cori hanno perso d'importanza nell'insieme della canzone, evitando così di ricoprire il ruolo di "ciliegina sulla torta" ma amalgamandosi meglio con gli altri elementi. A livello vocale i cambiamenti sono praticamente nulli: il growl di Veland non si è mosso di una virgola. "Lithium and a lover" raggiunge dunque la sufficienza scarsa a causa della poca incisività. Nella seconda traccia, "Voices within", siamo quasi di fronte ad un plagio: viene ripescata a piene mani la melodia di chiusura di "… Of ruins and a red nightfall" dei Tristania, che per l'occasione è accelerata per bene e, con un minimo di buon senso, inserita soltanto all'inizio della canzone, forse per non destabilizzare gli ascoltatori emotivamente legati al passato. Quanto poi sono fuori luogo e finti i suoni di synth, e com'è ridicola la batteria che nell'incipit cerca un'accelerazione in stile black metal! Fortunatamente la canzone è in grado di riprendersi grazie alla graziosa voce di Henriette ed alla sua parte introdotta da un breve solo al pianoforte e poi accompagnata da orchestrazioni sintetizzate, effettivamente bella, ma poco dissimile da quanto proposto da Liv Kristine e compagni nel capolavoro "Aégis". Ma, forse, ciò che veramente è in grado di sollevare il brano è lo stacco di violino, anche se è posto a caso nella struttura della canzone senza una senso di continuità.
Completamente anonime sono le due tracce successive "A mental symphony" ed "Euphoria". Che non siano più soltanto le tastiere, ma anche le chitarre a prevalere in alcuni momenti dei brani poco conta: tutto cade sempre nell'anonimato, e, mi spiace dirlo, nell'insufficienza. "In my darkest hour" ci propone una batteria che, ancora una volta, si cimenta in ridicole accelerazioni ad accompagnare bruttissime orchestrazioni riprodotte in maniera veramente indecente al sintetizzatore, che sembrano voler plagiare i Dimmu Borgir. A risentire di tanta bruttezza sono, purtroppo, i cori, relegati ormai ad un ruolo puramente ornamentale. A metà disco troviamo uno dei due (ed unici) episodi degni di nota: la pacata e soave, nonché intensa "Save me from myself". Il resto dell'album cade troppe volte ancora nell'anonimato. "The fall within" non merita alcun commento. I cori in chiusura di "Star-crossed" sono davvero imponenti, ma il resto della canzone è inascoltabile. Ecco infine arrivare la nona canzone "Seven sirens and a silver tear". Devo, per forza di cose, definirla un capolavoro (forse l'unico mai composto dalla band). Con quel bellissimo pianoforte prima incantato, poi impetuoso e alla fine dolce, i cori femminili in sottofondo e le orchestrazioni apocalittiche sembra di avere la percezione di una fine imminente e di un oscuro futuro che ormai sta diventando presente. Nella mia mente è come se quel mondo acquatico tanto malinconico quanto rasserenante evocato dalle canzoni dei Sirenia mi apparisse nello scenario spettrale ed angosciante delle sue rovine. Una visione oscura resa ancora più affascinante dal pianto lontano di una Sirena, in lutto per la distruzione del proprio mondo.
L'immaginario proposto da "An elixir for existence" ricalca perfettamente quello che ci accompagnava durante l'ascolto del debut-album. Sembra di stare immersi in un mondo futuristico e sottomarino che, tuttavia, si rivela sin da subito per quello che è: nient'altro che pura finzione. Finte sono anche le intenzioni di Morten: a discapito di quanto affermato, evolvere il proprio sound non sembra essere una priorità per il compositore. Unici elementi di novità sono le ritmiche leggermente più veloci, ma inappropriate, la maggiore importanza data alle chitarre e la migliore prestazione per quanto riguarda le female vocals. Il resto è sempre lo stesso: tastiere e synth (stavolta veramente pessimi) a profusione, contaminazioni dark-wave, i soliti riff di chitarra, il solito growl, fastidiose clean vocals degne del peggior Tilo Woolf, piano e violino a risollevarci dalla noia. E i cori gregoriani? Beh, purtroppo quelli non sono più gli stessi: se in "At sixes and sevens" sapevano rianimare molti brani con la loro maestosità, qui soffrono per la posizione anonima in cui sono stati relegati, persi anch'essi in quel variegato minestrone che il norvegese ha per l'ennesima volta riscaldato e proposto come una nuova esuberante ricetta. È da notare però come, in assenza di growl e chitarre, la band abbia saputo proporre due canzoni davvero riuscite, ispirate alla dark-wave e dal capolavoro dei Theatre Of Tragedy che risponde al nome "Aégis", ma in un contesto tuttavia sufficientemente personale.
Chissà cosa saprà proporci la band (per l'ennesima volta rinnovata sul fronte delle vocals femminili) con il nuovo "Nine destinies and a downfall". Intanto, i Tristania, reduci dalla pubblicazione del controverso "Ashes" e dello strabiliante "Illumination", e lontani ormai anni luce dai barocchismi eccessivi in cui rischiavamo di perderli con "Beyond the veil", hanno dato a Morten una grande lezione: riciclare sarà anche una buona opera, ma quando ci va di mezzo la propria musica diventa un'operazione abbastanza discutibile.
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