"Pedala!" - dice mia sorella imboccato il salitone delle Medaglie D'Oro. "Pedala" - dice, "Che sennò si spegne".

Così inizio a mulinare le mie gambe-sedicenni sui pedali ingrassati del "Sì-etto" della Piaggio. Se ci guardaste dall'alto, ci trovereste buffi, in sella a quel trabiccolo-cobalto che cigola e che ansima e coi capelli al vento, nel pomeriggio scuro.

E' il 1993, il casco non è ancora obbligatorio, e i capelli si fradiciano di brutto, quando piove. Così pedalo forte, e ho già il fiatone a metà della salita. Ci facciamo un popò di traversata due volte a settimana, solo ed esclusivamente per affittare i cd. Dal Prenestino a Piazzale Degli Eroi bucando il Tevere, che è già marrone ed inesplorabile come l'affluente più ripugnante dell'Acheronte.

E' il 1993. Mio padre fuma ancora quello schifo di Futura, ha i baffi, e guida un'Alfasud-cacarella senza l'autoradio. Per simularne una, ho incollato lo stereo-mangiacassette che abbiamo vinto coi punti dei biscotti sotto lo sterzo. Papà dice che gli rompe il cazzo, quando mette la terza. Il nostro piano odierno è semplice quanto meccanico: noleggeremo tre dischi, li riverseremo in cassetta e poi me li sentirò in macchina, nell'autoradio-improvvisata per gentile concessione del Mulino Bianco. Oggi scoprirò i Six Finger Satellite, caustici ed embrionali post-punkers di stanza in Rhode Island. "Il piccione è l'uccello più popolare che esista", afferma la copertina, ed è beffardo che lo dicano a me, che popolare non lo sarei mai stato.

E' il 1993. Mi masturbo, la notte, guardando le pubblicità degli 144.

Ora mi vedo, adolescente-murato come uno scrigno nel tramezzo d'un maniero. Se m'incontrassi per strada mi darei uno schiaffo. O forse mi abbraccerei. O forse ascolteremmo i Six Finger Satellite. Metteremmo la cassetta nello "stereo-palla" proprio sotto lo sterzo. Lo "stereo-palla". Così lo chiamava, il mio amico Rinaldi. Mi ci ritrovo nell'incedere caracollante e nei versi-minatòri di "Funny Like A Clown": "I'm the one-gag man, but life ain't funny, anymore". Cinismo e frustrazione sono il mio pane quotidiano, d'altronde. Ci sguazzo, nella disillusione. E ci sguazzo, nel noise. Potrei suonarlo anch'io, sbatterlo in faccia ai fighetti che alla festa del Liceo ci mostreranno quali e quante scale-pentatoniche hanno imparato quest'anno. Questo è ciò che fantastico, al chiuso della mia stanza, dando retta ai sadici-anthem di Jeremiah Ryan. I Nirvana e l'alternative dilagano in quei giorni, ma i Six Finger hanno l'aura da perdenti che non sigleranno mai gli annali. 

E il 1993. Mi bocceranno, alla fine di quell'estate, ma ancora non lo sospetto, seduto nell'abitacolo dell'Alfasud.

Così premo play: Il basso di "Solitary Hiro" è un latrato-frustrante che smuove la mia inerzia. Premo forward: "Hi-lo Jerk" è un blues-scoppiato che suonerebbero in un bar-decadente di El Paso. Schiaccio reverse: le chitarracce di "Love (Via Satellite)" sono rasoiate che farebbero sanguinare pure i Jesus Lizard.

Estraggo la cassetta: è il millenovecentonovantatrè.

E lo è ancora, in un brandello-ostinato di me.

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