E’ stato il mio ultimo concerto prima di diventare padre. Prima ce ne sono stati talmente tanti da non riuscire a ricordarmi quanti. Parliamo ovviamente di concerti, non di figli. Siamo precisi. Ero con la mia fantastica dolce metà, che non sempre mi ha accompagnato, (ho assistito a molte live da solo, mi è sempre piaciuto un casino farlo) perché quando il metallo si fa troppo pesante, lei perde l’effetto calamita.

8 marzo 2019. Mentre gruppi di donne esagitate mancavano di rispetto alla loro festa in preda all’ebbrezza da apericena, noi stavamo entrando nel piccolo Fabrique di Milano. Un locale che ricorda la tana del topo Jerry, con un’acustica abbastanza buona e la possibilità di godersi i propri beniamini da molto vicino, con annessa possibilità di ricevere qualche goccia di sudore in faccia oppure (per chi ha più culo che anima) un plettro o una bacchetta (preferibilmente non in fronte).

Slash featuring Myles Kennedy & The Conspirators, ovvero una band che vede tra le sue fila due tra i rappresentanti più iconici della musica che amo. Insieme, sullo stesso palco, a pochi metri di distanza da noi. Non esagero nel dire che la notte prima del concerto ho avuto circa una decina di risvegli; avendo dormito quattro ore, direi che sono stato comprensibilmente ignorato da Morfeo e compagnia bella.

Ma torniamo a bomba. Arriviamo con largo anticipo nel locale e in un amen abbiamo già percorso tutto il perimetro due volte, mentre sorseggiamo la nostra prima birra (se così si può chiamare), quella che deve inebriare dopo il doppio toast mangiato a casa a titolo di apericena (anche se non ci sarà una cena). Una birraccia che costa come un intervento a cuore aperto fatto nel paese dello zio Sam (senza assicurazione sanitaria), servita in un bicchiere di plastica talmente sottile da sconsigliare qualsiasi movimento brusco del pollice opponibile. Mentre mi chiedo se sia il caso di fare un salto in bagno per evitare di dover perdere il posto a bordo palco, mi accorgo di averlo già perso. Dopo un “Te l’avevo detto!” pronunciato dalla mia dolce metà attraverso il tono proprio delle giornate peggiori (avete capito quali, hanno cadenza mensile) mi accorgo che la nostra mattonella è già stata occupata. Trattasi di una compagnia di orobici già ubriachi che, come clienti di un centro commerciale in apertura durante una svendita, si sono riversati in massa laddove speravo di passare la serata io. Ci consoliamo pensando che siamo troppi vecchi per pogare o anche solo prenderci qualche gomitata e individuiamo in alternativa uno spazio poco distante, occupato da altre coppie e da qualche evidente astemio.

Le luci si spengono, la folla urla e le mie narici cominciano ad avvertire la presenza di odori familiari, che niente hanno a che fare con l’incenso o qualche olio essenziale. In barba alla Legge Sirchia e al buonsenso, qualcuno ha già incendiato il suo primo spino della serata e ha sicuramente messo poco tabacco. Braccia alzate, smartphones che sovrastano le teste, un’altra folata di canna proveniente stavolta dalla mia sinistra e una forte luce che con movimento circolare ci trapana le cornee.

Entrano i Conspirators, si sparpagliano e prendono posto attraversando una leggera coltre di nebbia e luci. Le urla si fanno sempre più appassionate, la tizia alla mia sinistra mi ricorda Meg Ryan nel finto orgasmo di Harry ti presento Sally. Arriva Myles Kennedy, che saluta e guadagna il centro del palco, facendoci saltare come grilli. Poi calca il palco Saul Hudson in arte Slash ed è il delirio. In testa l’enorme cilindro dal quale fuoriescono i riccioloni neri, Ray-Ban scuri a celare lo sguardo appassionato e in mano l’adorata (e adorabile) Gibson Les Paul rossa.

Neanche il tempo di gestire il delirio della folla al suo cospetto, che si comincia. “The Call Of The Wild”, “Halo” e “Standing By The Sun”, tutte d’un fiato, un lungo riscaldamento. Myles slaccia le cinture e molla quel suo velo di timidezza, sempre senza perdere però il contegno che lo contraddistingue. Ci aizza, ci tende il microfono, fa squadra con i Conspirators, mentre Slash incendia il plettro e mitraglia riff dietro le lenti scure. “Back From Cali”, tra le mie preferite, poi “We’re All Gonna Die” e “Doctor Alibi”, eseguite entrambe magistralmente da Todd Kerns, bassista della band, un pennellone magro dai lunghi capelli neri, che ha preso possesso del palco e messo per un attimo in panchina Myles.

Dal passato delle “Pistole e Rose” arriva poco, solo la coverona “Nightrain”, di una potenza inaudita, con quel suo lungo abito anni Ottanta, sfoggiato a titolo di unico episodio evocativo dell’antica gloria. Ma è con “Wicked Stone” che raggiungiamo il godimento massimo, quello inizialmente solo simulato dalla tizia alla mia sinistra. Il pezzo scorre che è un piacere e a metà parte l’assolo degli assoli di Saul. Dieci minuti di orologio, che il mio braccio e la mia spalla destra ricordano ancora molto bene. Il mio smartphone è quello più in alto, seicento secondi immobile, puntato sulla Gibson suonata da Slash per buona parte del minutaggio a testa bassa e ginocchia semi piegate. Il mondo sembra abbia smesso di girare, con buona pace dei terrapiattisti. “Dai ancora qualche secondo poi finirà e mi riprendo il braccio” continuo a pensare, aiutandomi ad un certo punto con la mano sinistra, per scongiurare tremori che possano rovinare il lavoro fatto fino a quel momento.

La mia dolce metà mi guarda orgogliosa e stupita, Slash non ha intenzione di smettere, spara dentro un altro pentagramma e si candida a MVP assoluto della serata (come se il titolo non fosse già suo di diritto). Il plettro rallenta, la mia mano sinistra si prepara a tornare a casa, finisce la canzone. Stupore ma anche sollievo da parte di tutti, perché sappiamo che quei dieci minuti valgono da soli il prezzo del biglietto ma a una certa, però, anche basta. Gente che si guarda esterrefatta, altro odore di canna (questa volta sfacciato), applausi a scena aperta. Slash ci ringrazia e sfoggia la stessa freschezza che avrebbe un comune mortale dopo un massaggio shiatsu. Il cilindro non si muove di un millimetro e ancora oggi, dopo anni, mi chiedo se sia incollato alla testa con un qualche biadesivo industriale. Cinquantaquattro primavere (oggi tre in più ma è cambiato poco), tanto fumo, alcol e un bel po’ di droga e non avvertirne il peso.

Il resto scorre a meraviglia, mentre l’adrenalina riporta il cuore a un regime normale. Tra le altre, “Starlight” è soltanto emozione, tramite la voce di velluto di Kennedy, che torna squillante e agitata con “World on Fire”, per dare la dueventi finale con “Anastasia”, che ascoltiamo stanchi e con le sinapsi strafatte ma il cuore pieno di gioia.

Usciamo dal Fabrique dando un’occhiata alle maglie (come faccio sempre l’ho acquistata prima che le bancarelle ufficiali fossero prese d’assalto). Comunichiamo attraverso la lettura della labbra e i gesti confusi, dato che l’immancabile fischio alle orecchie ha iniziato la sua due giorni con la solita prepotenza.

Non avevamo idea di cosa ci sarebbe successo alla fine di quell’anno. Che le nostre eredi fossero prossime al decollo e che sarebbe stato il nostro ultimo concerto prima di una lunga pausa. Ma se la mia dolce metà ed io avessimo dovuto scegliere un concerto a caso prima dello stop forzato, questo sarebbe stato sicuramente tra le decisioni migliori mai prese.

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