Da qualche parte saranno le cinque del pomeriggio, rispose un barista a Slash che ordinava con vergogna un whisky alle cinque del mattino. E mai ci fu titolo più azzeccato per quest’ album. “It’ s Five o’ Clock…” non è stato un successo strepitoso, come furono invece quelli della band dalle cui ceneri è nato. D’altronde non l’avrebbe nemmeno meritato. Questo disco racconta lo Slash musicista, le sue inclinazioni blues, la sua passione per l’hard rock fatto in una certa maniera. Ma non ha mai avuto la pretesa di emulare un qualsivoglia capolavoro dei Guns‘n’Roses. Dando un’occhiata alla line-up, ad onor del vero, verrebbe d’affermare l’esatto contrario: “La Fossa Dei Serpenti” era qui composta dai Guns per (quasi) quattro quinti della band (e dico quasi perchè Duff McKagan firma sul cd solo alcuni pezzi). Le composizioni di “It’s Five o’clock...” sono costruite però usando stile ed idee decisamente personali. Come accennato, si sente anche il blues.

In “Neither Can I”, scelto non a caso come pezzo d’ apertura, e a tratti pure nella semi-ballad “Beggars & Hangers-on”: brano nel quale soprattutto la voce strepitosa di Eric Dover primeggia per intensità e ispirazione. La si ascolta e si sente un odore aspro d’alcool e sigarette. Reclutato come semplice “clone” di Axl Rose, regala un’interpretazione appassionata ed accattivante come non ne ho più risentite. Ugola graffiata, graffiante nelle dinamiche più rockeggianti, dal timbro personalissimo (cfr. tuo maestro di canto: “fumare rovina la voce”), mai banalmente aggressivo o tirato su tonalità smodate, caldo e coinvolgente nelle digressioni melodiche del mulatto dei Guns. Fiammeggia invece Eric su “What Do You Want To Be” (brano che gioca tra l’altro su un intreccio di riff niente male), sulle strofe di “Good To Be Alive” e sul finale di “Be The Ball”. Molto orecchiabile, ed arricchita dal mestiere del bassista Mike Inez, anche “Monkey Chow”, pezzo accreditato al solo Gilby Clarke. Trattandosi poi di un lavoro “made in nineties”, ci è consentito fruire dell’ascolto di lunghi soli, quasi tutti azzeccati, anche se mai improntati all’ eccessiva ricerca del preziosismo tecnico.

Un po’ sotto tono forse alcuni episodi di dubbia caratura stilistica come “Lower” e soprattutto “Doin’ Fine”, refuso bellico del peggio glam anni ottanta (certe cose sono state belle finchè sono durate, perché insistere?). Nonostante (l’ovvia) delusione di molti fedelissimi che sperarono, acquistando “It’s Five o’ Clock…”, di sentire qualcosa di più simile possibile ai Guns‘n’Roses, non si può parlare di uno Slash povero di idee (e di talenti): è vero, mancano le ruffianate di Axl Rose. Ad esempio tra le note di quest’album non si scorge una “Don’t Cry”. Ma possiamo davvero condannarlo per questo?

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