"All Hands On The Bad One", classe 2000, è stato per un mese tra gli ascolti più gettonati di Jerry.

Il mese è il luglio soleggiato e piovoso di una Dublino grigioverde, e Jerry è il mentore, il boss indiscusso della bottega in cui stando ai termini contrattuali sarebbe un semplice commesso: sui cinquanta ma portati malissimo, borse esagerate sotto i suoi occhi irlandesi, piccoli e verdastri; scheletrico, capelli tinti di un rosso mai visto e acconciati à la Johnny Rotten, per aggiungere quindici centimetri buoni a una statura già esagerata di suo. Cravatta, camicia nera dentro la cintura borchiata, pantaloni davvero troppo aderenti, trasandati: scarpe italiane lucidissime, il tocco di classe. Un inspiegabile accento yankee.

Un personaggio mitologico insomma, un disadattato veterano. In quanto a cultura musicale, un padre spirituale per tutti. Dischi dei Japan, Talking Heads, Siouxsie And The Banshees e altre meraviglie New Wave suonano in bottega sotto la sua attenta supervisione.

Tra 77, The Queen Is Dead e istituzioni varie, a cadenza quasi giornaliera, si ritaglia 40 minuti di gloria la quinta uscita discografica del trio di Portland noto (non troppo) come Sleater-Kinney: e se la merita, questa premura da parte di Jerry. Se la merita perchè in "All Hands On The Bad One"Corin Tucker e Carrie Brownstein, voci e chitarre, e Janet Weiss alla batteria, forti di una formula già consolidata e di un sound maturo e assolutamente peculiare, rivelano uno spessore in fase di songwriting che finora era stato espresso solo in parte: pur non rinunciando al piglio garagista degli esordi, specie in pezzi come Ironclad, la scatenata Youth Decay The Professional, e a tematiche socialmente impegnate, con un'attenzione particolare per la parità dei sessi, le Sleater-Kinney riescono a conferire ai brani un respiro pop che calza a pennello; così, brani inesorabilmente easy listening quali Ballad Of A Ladyman e You're No Rock'n'Roll Fun, salvo pregiudizi, non farebbero storcere il naso neanche all'ascoltatore più sofisticato. Qualità non da poco, tra tanti revival di tendenza e ruffianate simili, e questo Jerry lo sa.

Le influenze sono molteplici, e si fanno sentire: il garage punk, a partire dalla copertina, le Breeders nel pop di Leave You Behind, Kim Deal e le sue armonizzazioni a tratti leggermente dissonanti un pò in tutto il disco, Siouxsie Sioux nello stile canoro di Tucker, richiami ai Television nelle parti di chitarra, un pò di sano rumore à la Sonic Youth; influenze pesanti si, ma sintetizzate alla perfezione nel sound delle Sleater-Kinney che riesce a risultare fresco e originale, certamente più figlio che emulo, con le sue chitarre accordate una terza sotto il mi per compensare la mancanza del basso.

Non un capolavoro, paga un eccessivo 'ammosciamento' verso il finale, forse voluto o forse dovuto a una distribuzione non ottimale dei pezzi più grintosi, ma un album da rivalutare di un ormai ex trio di femministe incazzose che avrebbe meritato certo maggior fortuna, se non presso Jerry, il maestro, il punto di riferimento di un gruppo multietnico di giovani inesperti, in quella felice bottega d'Irlanda.

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