"Wild love/Wild love/Somebody shot down my wild love" canta Smog (aka Bill Callahan) nella title-track. E più che un canto è una declamazione nel deserto intrisa di una nostalgia a stento trattenuta, più che un pezzo è un bozzetto appena tratteggiato su una tela di fortuna.

E sia la declamazione che il bozzetto sono la perfetta sintesi di "Wild Love", il disco.

Sì, perché questo amore selvaggio che Smog pretende essere stato abbattuto da qualcuno c'è da scommettere che lui non l'abbia mai provato.

Per questo declama, perché l'oggetto del suo rimpianto non ha i contorni netti e precisi di un ricordo realmente vissuto; non può essere evocato dai sentieri sicuri di una melodia. La nostalgia di Smog è archetipica, esistenziale, una nostalgia del Paradiso Perduto.

Per questo il bozzetto e la tela di fortuna, perché non si può sviluppare compiutamente ciò che è "solo" un sentire congenito e, in fondo, la superficie dove lo si vuole esprimere non ha alcuna importanza.

I buoni due terzi del disco hanno questa cifra stilistica: tremolanti vignette oniriche a lume di candela, marcette stranianti condotte dal passo di tastierine ingenue, soliloqui malinconici innescati dal violoncello di O'Rourke. Vignette che raramente raggiungono i due minuti, marmi appena sbozzati da una grezza produzione lo-fi, gesti appena accennati che rinviano al mondo delle possibilità.

Su tutte domina l'atteggiamento decadente e solitario di Smog. Una voce secca, magra, ma con un doppiofondo straziante, una voce che pare la risultante di uno strano ossimoro in cui il vitreo nichilismo di Lou Reed è bilanciato dalla profonda empatia e fragilità di Nick Drake; il tutto immerso in un'atmosfera scazzata a- Pavement.

Nei - pochi - pezzi più articolati il nostro prova a scuotersi dal torpore. Veri e propri risvegli elettrici in cui densi incroci chitarristici, drammatiche partiture di orchestrazioni complesse, riffs sbilenchi e ritmica incalzante danno vita a tirate cupe e sinistre che sono come gli ultimi spasmi di vita di un moribondo, l'ultimo balzo improvviso di un paralitico.

La rabbia repressa e improvvisamente sfogata, la voglia di vivere che prende a capocciate i muri e l'eterogeneità sorprendente di "Julius Caesar" - per me il vero capolavoro di Smog - è in "Wild Love" come superata, annichilita, definitivamente sopita.

Bill Callahan ha perso ogni illusione e non gli rimane altro che sopravvivere ad un mondo che è ormai morto e sepolto da un pezzo, un mondo che è ormai un ricordo forse solo immaginato, un mondo dove aveva provato un amore selvaggio.

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