Mentre al principio del nuovo anno la maggior parte dei miei coetanei palpitava per l’uscita del nuovo album dei Verdena, la sottoscritta era in fibrillazione per ben altro tipo di release.

A sette anni di distanza da “Sex,Drugs and Rock’n’roll” esce il settimo lavoro (coincidenza?) dei Social Distortion, e si inserisce prepotentemente in un contesto musicale profondamente mutato, con l’obiettivo di riportare gli ascoltatori ai fasti di un’americana (forse) completamente sconosciuta ai giovanissimi e praticamente sepolta nella memoria dei meno giovani, ormai assuefatti a sperimentazioni di ogni genere, indie rock e affini.

Forgiati dalla trentennale esperienza del punk-rock californiano, Mike Ness e soci ritornano con una line-up piacevolmente rinnovata dall’ingresso in pianta stabile del bassista David Hidalgo Jr. (figlio d’arte del frontman dei Los Lobos), stemperando la propria indole da outsiders losangelini per vestire i panni di un rock’n’roll che più classico non si può. “Hard Times and Nursery Rhymes” sembra proprio un viaggio nell’America degli stivali da motociclista, le camicie di flanella e i cappelli da cowboy: tutti stereotipi che hanno, prima o poi, stuzzicato la fantasia di ogni rocker che si ritenga tale, e che fanno da sfondo a quella vita alla “Easy Rider”, “Motorpsycho” o quel che sia che tutti avremmo voluto vivere, fatta di deserti sconfinati e di viaggi on the road a ritmo di blues, per i quali questo disco sarebbe la colonna sonora perfetta. Botta strumentale in apertura (“Road Zombie”), si viene subito catapultati nel cuore dell’Orange County, circondati da un boogie-blues che ricorda vagamente l’intro di “It’s A Long Way To the Top” degli AC/DC, questa volta condito con una buona dose di cori femminili incalzanti, soprattutto in chiusura del pezzo: on down the line, “California (Hustle and Flow” lascia spazio ad una serie di nove brani che rientrano perfettamente nello spirito della band. “Alone and Foresaken”, cover di un brano di Honky Tonk Williams sembra una rivisitazione di un pezzo di qualche anno prima (“Like an Outlaw”, dall’album “Prison Bound”), se pur vista dai più scettici come un tentativo di ripercorrere le affezioni musicali del frontman Mike Ness, tutt’altro che nuovo ad esperimenti di questo tipo (“Under the Influences”, secondo album da solista, è praticamente un album di cover, nè d’altra parte si può mancare di menzionare la versione di “Ring of Fire” o di “Death or Glory”, inserita poi nella colonna sonora di “Lords of Dogtown”).

Tutto il resto è un immenso trip alla Kerouac, a tratti nostalgico e malinconico (“Bakersfield”), a tratti persino springsteeniano (“Diamonds in The Rough” sembra uscita da “Born To Run”), come se fosse un racconto d’amore e di working class alla U.S.A. e sul quale, a questo punto, non mi sento di spendere più altre parole. Thumbs up.

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