SoKo potrebbe essere il nome del nuovo calippo estivo. Color antracite e dal gusto agrodolce delle insicurezze terrene, con una punta di aspra ironia.
Stéphanie Sokolinski, in arte SoKo, è una ragazza guardabile, ora ch’è platinata (come da copertina) risulta ancora più guardabile. Francese di origini polacche, esordisce giovane (2003) nel cinema. Insomma fà soldi e in seguito si dedica ad un’altra passione che è la musica. Si lascia alle spalle l’immagine di ragazza acqua e sapone che sembrava mostrare il suo debutto del 2012, contraddistinto da un pop acustico con tendenze intimiste. Ora scopre le carte e svela un volto più patinato e forse più autentico, anche di quelle che sono le sue sensazioni. Non che esprima concetti profondi, anzi al contrario c’è una banalizzazione dei temi che diventano generalisti e un po’ cazzari, ma proprio per questo riesco a percepirla più diretta, senza frivolezze di sorta.
Infilandosi fuori tempo massimo in un calderone post-wave/goth, sicuramente è un disco che non suona nuovo, ma d’altra parte non ha la minima pretesa di farlo. Sembra più un omaggio agli amori verso band come i Cure o i B-52’s; letto in quest’ottica fila ch’è un piacere, con spunti melodici evocativi niente male.
Gli scenari dipinti sono per lo più stranamente nitidi, grazie ad un mixaggio coi controcazzi (inzialmente aveva chiesto a Robert Smith, che si è rifiutato, ed ha “ripiegato” su Ross Robinson) che mette la voce in primo piano senza renderla preponderante. Proprio la voce risulta il tocco in più: calda e al tempo stesso distaccata, un po’ roca e lasciva. Non vorrei scomodare Siouxsie ma lo stile ricalcato è quello.
L’album è un rincorrere le atmosfere dei primi Cure, specie Faith, e quelle dei Cure post-depressivi negli episodi più allegri. “Visions” è emblematica del primo caso: una litania sommessa e gracchiante in cui lo spazio sembra dilatarsi. “My precious” e “Temporary mood swings” a fare da contraltare, tra i momenti più disimpegnati ma non per questo meno efficaci, specie la seconda con la sua chitarra arabeggiante e il cantato nevrotico a là B-52’s.
Non mancano le collaborazioni: in “Who wears the pants” l’attacco della chitarra, che sembrano essere i pixies, è suonato da Ambroise Willaume, voce e chitarra dei Revolver. Nel pop soffuso di “Bad poetry” suona la batteria Stella Mozgawa, membro dei Warpaint. In “Monster love” e “Lovetrap” c’è lo zampino di Ariel Pink che canta e arrangia; la seconda è un tuffo negli anni ’80 più plasticosi, col suono più asciutto dell’intero album e un bel siparietto tra la cantante e Ariel che giocano ad avvicinarsi e respingersi.
La nostra non manca di spaziare tra atmosfere dreamy: “Come in peace” e tradizionalmente goth come la titletrack. Non ci fa mancare nemmeno un plagio: “Ocean of tears” che è fottutamente uguale a “Antichrist Television Blues” degli Arcade Fire.
Un disco non particolarmente coerente da cui però si evince personalità. Segna per me la prima felice uscita dell’estate.
Carico i commenti... con calma