E‘ un disco importantissimo quello di Solange Knowles, il terzo di una carriera nata come coreografa e autrice bambina per l’ingombrante sorellona (Beyonce e le sue Destiny’s Child) e proseguita via via lungo scelte visive, musicali ed etiche sempre molto ruvide e distanti da quelle della ben più famosa consanguinea.

“A seat at the table” sgorga fluido lungo il tracciato barricadero del movimento black lives matter, nei sit-in aggregativi di protesta che hanno visto la cantautrice sferrarsi in importanti dichiarazioni sull’indipendenza e sulla consapevolezza nera e a tratti richiama lo stesso impegno politico che fu di Nina Simone.

Nina Simone, infatti, ma anche l’evoluzione 2.0 di un’ Erikah Badu, un po’ all’angolo ultimamente, e con le rimembranze delle più defilate ma incisive soul ladies degli anni ’70 (Minnie Riperton e Syreeta su tutte).

A seat at the table è un concept complesso, che concede poco spazio alla melodia facile. Si insinua e si addentra piano piano conquistando i suoi spazi mediante geometrie musicali e testuali studiate millimetricamente (i tocchi pianistici di “Weary”, le cascate sintetiche di “don’t you wait”, i bassi portentosi di “Don’t touch my hair”).

Fra un brano e l’altro non stonano gli intermezzi-parentali: il KKK, il razzismo al contrario, i rehearsal e i cori improvvisati. Tutto ha un senso: politico, femminile, assertivo.

Solange ha scritto tutto da sola ma si è fatta guidare al banco da quel portento musicale che è Raphael Sadiq. Ottimi ospiti (Kelela, Sampha), felici ritorni (Il genio di Blood Orange che già le produsse l’ottimo ep “true” di qualche anno fa).

Un disco che non può essere spiegato “a tratti”. I singoli, che con queste premesse non possono esistere, si stagliano quando supportati da sceneggiature sorprendenti e anch’esse studiate con molto rigore.

E' comunque un rigore che non congela. C’è molta, molta rabbia in questa trentenne. Eppur pare miele.

Per il sottoscritto è disco dell’anno.

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