Bello bello bello. Me lo ascolto una volta ancora, mentre ve lo descrivo, quest'album che, come una finestra spalancata su un gelido paesaggio innevato, porta un po' d'inverno nella mia stanza.  

 Un piccolo tesoro per chi ama il folk apocalittico, e non solo, dato che i tedeschi Sonne Hagal, in linea con i conterranei Forseti e Orplid, sono in grado di trascendere il genere, guardando oltre gli umori tragici e fatalisti dei loro maestri, preferendo piuttosto seguire il filo dei propri sentimenti e riversarli nella poesia e nella malinconia di un folk arcano e panteistico.

Ed è probabilmente la scena neo-folk teutonica a darci le gioie più grandi di questo terzo millennio. Da un lato accantonando certi cliché inflazionati e ormai svuotati del loro significato originario (e penso alla trite e ritrite ambientazioni belliche, spesso accolte con una superficialità a dir poco urticante), dall'altro orientandosi alla riscoperta delle tradizioni folcloristiche del centro e del nord Europa.

Dei Sonne Hagal non si sa molto (lo stesso loro sito web, rigorosamente in tedesco, non ci dice granché, preferendo suggestionarci con foto di paesaggi in bianco e nero), se non che sono un quartetto con alle spalle un notevole numero di pubblicazioni (spesso edite solamente in vinile e in tirature ultra-limitate).

"Helfahrt", licenziato nel 2002, sembra costituire ad oggi, fra una miriade di EP, singoli e split, l'unico loro full-lenght ufficiale .

 L'opener "Memory, Hither Come" - semplice, quasi puerile, appena sussurrata, eppure così coinvolgente - ci rapisce con un basso esplosivo, una chitarra incalzante e gli intensi balletti di violino e violoncello: il mondo dei Sonne Hagal si materializza così, senza virtuosismi, attraverso la voce del cuore e l'umiltà di quattro menestrelli che hanno evidentemente qualcosa da dire.

Del resto, il fatto che i Sonne Hagal siano una vera band e non il progetto del misantropone di turno è del tutto evidente: la loro musica, forte del valore aggiunto dell'interazione di cuori, menti e talenti, riluce di una coralità, di una ricchezza di spunti e di una varietà di soluzioni che rendono l'ascolto scorrevole ed estremamente piacevole.

I quattro non rinunciano, inoltre, all'uso, ben dosato, di un'elettronica minimale che di tanto in tanto irrompe in punta di piedi, senza comunque ledere il fascino arcaico delle composizioni (dimenticavo: i Sonne Hagal nascondono un'anima industrial/rituale, meglio espressa altrove, ma che pure in questo lavoro via via avrà modo di emergere).

I sospiri di una pacata voce maschile, le intemperanze di un baritono che più nordico non si può, gli svolazzi eterei di una leggiadra fanciulla: ben tre le ugole chiamate ad animare i dodici gioielli qui raccolti. Senza poi contare il contributo prezioso di due amici di tutto rispetto: Kim Larsen (:Of the Wand and the Moon:) e Andreas Ritter (Forseti), che prestano voce e chitarra in ben tre episodi.

 "Eismahd", che appartiene alla nutrita schiera delle folk-ballad presenti all'appello, rappresenta insieme a "Thrymskvida", "Song of Experience" e "The Sick Rose" il lato più intimo dei Sonne Hagal (il pezzo, fra l'altro, verrà ripreso con non troppe variazioni dai cugini Forseti in occasione del superbo "Erde").

"Midwinternight", forte di un canto impostato e tradizionale, mostra invece il lato più epico e struggente dei Nostri. "Songs of Innocence", da parte sua, si ricongiunge direttamente al filone Fire+Ice/Sol Invictus: e non a caso al sopraggiungere del ritornello sembrerà di udire la voce intensa e tremolante del maestro Ian Read. Brividi sulla nostra pelle, mentre le chitarre incalzano e una voce di fata volteggia magica nell'aria.

 Non mancano tuttavia episodi più movimentati, come "Futhark" (electro-folk che ricorda i primi Death in June, quelli di "Nada!" tanto per intendersi), "Comrade Enemy" (minaccioso flamenco rincorso da irrequieti violini) o l'oscura "The Runes are still Alive", che a mio parere si candida a pezzo più intrigante dell'album: il battito metallico di una drum-machine, sussurri e archi stridenti che raschiano le chitarre, e un recitato apocalittico che va a resuscitare il lamento sfibrato del mai troppo compianto Ian Curtis.

 Ottime, a mio vedere, le parentesi ritagliatesi dai due ospiti: la "Raidho" di Kim Larsen è una desolante perlustrazione fra la neve e il freddo, scandita da arpeggi funerei e affossata da una sofferta orazione che evoca disgregati paesaggi interiori. Andreas Ritter, dal canto suo, instilla un tocco di Forseti nella malinconica "Midgard" (ma contribuirà anche alla già citata "The Runes are still Alive").

 Questo e molto altro ancora in un album che nei suoi 45 minuti di durata non solo riesce a mantenersi costantemente sulla cresta dell'onda, ma che con fantasia ed arguzia rilegge in modo vario e vivace un genere che per vocazione si presta a ben altri toni e ben altre visioni.

 Per chi ama giacere in un letto di candida neve, avvolto in una coltre di foglie morte, al calore intimo dei propri pensieri, dei propri dolori, delle proprie passioni.

Elenco tracce e video

01   Memory, Hither Come (03:07)

02   Eismahd (04:02)

03   Midwinternight (03:49)

04   Song of Innocence (04:25)

05   Raidho (04:42)

06   Futhark (02:19)

07   Midgard (02:54)

08   Comrade Enemy (01:33)

09   Thrymskviða (03:44)

10   Song of Experience (03:24)

11   The Runes Are Still Alive (06:18)

12   The Sick Rose (05:23)

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