Ultimo capitolo della trilogia di recensioni intitolata “25 maggio 2018”. Non so se qualcun altro ha avuto l’idea di fare una “trilogia di recensioni” in giro per il web e non so nemmeno se considerare tale questa trilogia, me ne frega poco, ma intanto la concludo. Il 25 maggio 2018 è uscito anche il tredicesimo album in studio degli Spock’s Beard, band importante per la rinascita progressiva negli anni ’90, nonché per la mia formazione da progger (in tanti, immagino, abbiamo cominciato dal progressive metal, dal post-progressive o da gruppi di neo-prog moderno o prog-revival per poi andare indietro).

Di questa triade di dischi mi sa che gli Spock’s Beard sono quelli che ne escono vittoriosi, che più hanno sorpreso le aspettative (in quanto da Arena e Subsignal abbiamo avuto perlopiù conferme). Già le avevano sorprese con il lavoro del 2015, con nuove trovate e nuovi suoni ben integrati in mezzo al loro classico stile, e lo fanno ancora. Gli Spock’s Beard in questo “Noise Floor”, a scapito del titolo che potrebbe far pensare a ben altro, si reinventano e si riscoprono piacevolmente e brillantemente melodici. Non che non lo fossero mai stati, anzi, ma qui proprio prendono la loro componente melodica e la mettono in primo piano, la sviluppano, la potenziano al massimo, e il risultato è assolutamente strepitoso. Una scelta stilistica che potrebbe grossomodo ricordare quella del periodo più intimista ed orecchiabile di dischi come “Octane” e “Spock’s Beard”, ma qui tutto è portato al massimo splendore.

Per fare questo ovviamente rinunciano a brani troppo articolati e dinamici e scelgono di poggiarsi su trame assolutamente lineari, ritmi lenti o non particolarmente sostenuti e riff distesi al massimo, riducendo i virtuosismi al necessario; e ottengono il risultato senza mai sconfinare nel pop, cosa molto facile quando si semplificano le strutture; puntano inoltre su un’arma decisamente potente come la voce di Ted Leonard; io che lo reputo uno dei miei vocalist di riferimento avendolo conosciuto come vocalist degli Enchant esultai quando scelsero lui come nuovo cantante nel 2011 ma avendolo poi sentito cantare negli Spock’s Beard mi continuavo a chiedere se egli stesse dando davvero il massimo nella sua nuova band; personalmente continuo a considerarlo più congeniale per il sound più melodrammatico degli Enchant (spero che questi si decidano a rilasciare presto un nuovo album dopo il pesce d’aprile del presunto addio lanciato su Facebook) ma qua al suo terzo lavoro nella band egli si rivela davvero un punto di forza, quasi fondamentale per dare all’album quella melodia potente e solare.

Brani emblematici di questo approccio sono soprattutto “What Becomes of Me”, con il suo brillante connubio piano-archi e la tendenzialmente acustica “Somebody’s Home” con il suo ritornello a dir poco squillante. Bastano già queste due tracce a farsi un’idea dell’economia generale dell’album. Molta semplicità anche nella più cupa “So This Is Life”, con il suo incedere lento e drammatico condotto dall’organo, quasi in stile Van Der Graaf Generator, ma potrebbe anche ricordare “Us and Them” dei Pink Floyd. La melodia brillante paradossalmente è protagonista anche quando i ritmi si fanno più sostenuti come in “To Breathe Another Day”, un brano AOR energico e poco articolato in stile Kansas con qualche tocco hard nel ritornello, dal piglio molto estivo e da cabriolet e capelli al vento (vento che svolazza i capelli del bassista Dave Meros nel video del brano, sarà forse un’allusione proprio a questo?). Ma allo stesso modo le melodie rimangono distese e regolari anche quando la lunghezza si fa un po’ più consistente come in “Have We All Gone Crazy Yet” e in “One So Wise”; la prima è solo moderatamente articolata, la seconda ha soltanto qualche sobbalzo nell’intro e un’accelerazione con tanto di acido solo di synth. Tuttavia però due brani notevolmente dinamici vi sono eccome, ovvero la strumentale “Box of Spiders” (con il suo incipit di synth in stile AOR) e la conclusiva “Beginnings”, dotata di una notevole parte strumentale.

Da non snobbare anche l’EP bonus in omaggio intitolato “Cutting Room Floor”, con brani provenienti dalle sessioni di registrazione dell’album, piuttosto importante per comprendere meglio la natura melodica dell’album; anzi, tre dei quattro brani sono addirittura più semplici ed elementari di quelli del disco principale, sale in cattedra soprattutto “Days We’ll Remember” con la sua brillantissima melodia AOR in stile Styx, poi c’è però anche qui la strumentale movimentata che devia da tutto il resto e risponde al nome di “Armageddon Nervous”.

Non dimentichiamo poi che questo è l’album in cui rispunta in studio lo storico batterista Nick D’Virgilio; aveva lasciato la band nel 2011 facendosi sostituire in pianta stabile dallo storico tour member Jimmy Keegan, ma ora che Jimmy ha deciso di lasciare la band Nick si riprende le pelli senza però rientrare ufficialmente nella band. Qui svolge una prestazione sicuramente dignitosa ma che non risulta però decisiva nell’economia dell’album e non emerge significativamente la sua mostruosità tecnica, ma non è colpa sua, semplicemente lo stile pacato dell’album non aiuta a mettere in risalto il suo stile.

Concludendo “Noise Floor” è stata davvero una bella sorpresa, l’esame melodico è superato davvero a pieni voti e gli Spock’s Beard dimostrano di avere ancora da dire.

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