Diversamente da quanto si pensa gli Spock’s Beard sanno essere anche una band coraggiosa che dimostra di saper andare avanti e rifarsi la pelle pur rimanendo ancorata ad un certo stile. Lo hanno dimostrato dopo l’abbandono di Neal Morse (con dischi come “Feel Euphoria”, “Octane” e “Spock’s Beard”) e lo dimostrano tuttora con questo dodicesimo lavoro in studio, il secondo con il cantante Ted Leonard e con il batterista Jimmy Keagan.
Il bassista Dave Meros aveva annunciato che l’album avrebbe presentato una band piuttosto diversa da come eravamo abituati a sentirla; diciamo che in buona parte la nostra curiosità ha trovato una concreta risposta. Il disco infatti continua a mantenere uno stretto legame con il prog più classico e settantiano ma suona allo stesso tempo molto moderno, dando ancora una volta al pubblico una dimostrazione di come il prog sia un genere più che mai vivo. Passaggi articolati di organi hammond, mellotron, synth dal sapore vintage e stacchi acustici sono elementi abbondantemente presenti come sempre ma ad essi si affiancano chitarre dal sound ruvido e spigoloso (senza tuttavia sfociare in un vero e proprio hard prog), basso pesante e affilato, tastiere dal sound fresco, brillante e attuale.
Già quando fu presentata in anteprima la traccia d’apertura “Tides of Time” e quando Meros la descrisse come “abbastanza classica” l’entusiasmo salì; accanto ai passaggi d’organo e alla bella parte acustica infatti vi troviamo vibranti guizzi di tastiere che non suonano certo come qualcosa di già sentito; <<se questa traccia si può definire “abbastanza consueta” allora chissà come sarà incredibile il resto!>> pensavo. E infatti qua vi troviamo un bel po’ di sorprese che non di certo ci si aspetta dagli Spock’s Beard. Una su tutte il peculiare approccio folk di “Bennett Built a Time Machine”, caratterizzata, oltre che da moderni loop di tastiere, dall’uso alquanto insolito del mandolino. Assolutamente insolita anche “The Center Line”: notevole la sua intro e outro di piano che non può che rimandare a quella di “Firth of Fifth” dei Genesis, così come anche la parte immediatamente successiva simile ad alcune cose fatte dai Flower Kings o anche la sua parte strumentale che aumenta in velocità ed intensità… ma la sua particolarità risiede nell’andamento quasi country and western che caratterizza strofe e ritornello; cavalcate che mi hanno subito rimandato a “Knights of Cydonia” dei Muse. Notevole anche la parte introduttiva di “A Better Way To Fly”, prima caratterizzata da un piano oscuro e da un’atmosfera quasi dark e successivamente da inconsueti passaggi elettronici prima che il brano trovi la sua piega definitiva, caratterizzata da un ritmo incalzante sostenuto da un intenso basso. Piuttosto sottovalutata la meno articolata e più immediata “Get Out While You Can”, che pur sembrando apparentemente insipida e con poco da riservare ha invece dei particolari suoni introduttivi e quella particolare atmosfera quasi “ambient” nelle strofe quasi a voler contrastare il decisamente più vivace ritornello. E non si può non menzionare nemmeno la dinamica “Disappear” essenzialmente per la presenza del violino suonato da David Ragsdale dei Kansas, con pizzicati udibili nella parte lenta, frizzanti sciabolate in quella più movimentata e tocchi più melodici e marcatamente sinfonici nella pomposa parte finale.
I restanti brani comunque non sono certo da meno e sono altrettanto meritevoli di considerazione; in “Minion” da menzionare le potenti staffilate chitarra-synth che caratterizzano sporadicamente il brano; “Hell’s Not Enough” colpisce per quel ritornello più che mai orecchiabile (in contrapposizione alle delicate strofe acustiche) ma quell’autoharp che interviene lo rende più invitante; “To Be Free Again” è invece un brano piuttosto classico e privo di sorprese, a mio avviso il più anonimo, non è mai particolarmente intenso e non decolla mai veramente, si lascia comunque ascoltare.
In conclusione un disco fresco ed ispirato, che molto probabilmente finirà nella mia top 10 personale del 2015. La cosa figa… è che ho avuto modo di rinfacciare queste sensazioni ad uno dei protagonisti di tutto ciò… nientemeno che… il tastierista della band Ryo Okumoto!!! Sì, proprio così, ero appena arrivato al Legend Club per assistere alla loro recente data milanese del 23 settembre, ero arrivato un po’ in ritardo per un meeting con gli altri membri (che stavano giusto giusto entrando nei camerini) ma in tempo per due chiacchiere con il tastierista giapponese a cui ho rivelato di essere un loro fan dal 2008 e di aver apprezzato questo nuovo lavoro perché portatore di nuove idee. Momenti che ti cambiano la vita.
In ogni caso speriamo che sia solo l’inizio di una nuova fase creativa per la band.
Carico i commenti... con calma