Il curioso fenomeno Squallor, nato nel 1973 ad opera di Alfredo Cerruti, Totò Savio, Daniele Pace e Giancarlo Bigazzi irrompe nel fervente panorama della canzone italiana - con cui poco ha a che fare - con il terzo disco della produzione, coetaneo di "Vacca"; dopo il semifaceto e quasi puritano "Troia" del '73, anno di esordio, e il mordace "Palle" di un anno dopo, il risultato è un lavoro amabilmente trash, sboccatamente evocativo e troppo chiassoso (fece le sue apparizioni in classifica per settimane senza che vi fosse stata una preliminare pubblicizzazione del prodotto) per passare inosservato da critica aposterioristica: "Pompa", curioso a dirsi, è cult, e non è semplice politica di valorizzazione del troppo schifo che per legge dei contrari è troppo bello.

Su basi coveristiche, rubate, alluse, è qui dominatore, come in nessun altro pari disco, l'istrione Cerruti, che "canta" quasi tutti i pezzi, con macchiettismo vocale da antologia in più di una circostanza (Berta, Famiglia Cristiana), mentre il contrappunto pulitissimo di Totò Savio appare solo nell' arguta Sfogo, dove oggetto di scherno è, quasi all'estremo del paradosso, lo scherno che fanno del "sistema" i cantautori postsessantottini come De Gregori e Guccini, e con loro gl'indistinti seguaci.

"Tutti contro tutto": è questo lo slogan oltranzistico degli Squallor; lo scherno non risparmia nessuno, e la nota di pungente anticlericalismo che contraddistingue Unisex, la cui base musicale è quella dell'inclita "Fiesta" cantata e ballata dalla Carrà, non fa che rafforzare la tesi secondo cui non si guarda in faccia a nessuno, e non è certo vocazione politica o ideologica che muove all'ingiuria il gruppo: solo verve e goliardia, puro divertimento e gioco al massacro. Così, si può persino parlare di amore, dello stesso amore di cui sbavano gli autori della canzonetta contemporanea, con piglio dissacrante, sconcertante, abissale: succede nella squisita ballata saviana La Scarognata, nella santaniana Nottingam, e soprattutto nella memorabile Berta, settima traccia dell'album, dove sulle note di Brahms l'istrionismo di Cerruti si sdoppia in un alterco altanenante tra dialetto milanese e napoletano, involontario confronto di stili e culture: il linguaggio sboccato, che trova soluzione di continuità in Unisex senza colpo ferire, sfocia indisturbato in Famiglia Cristiana, penultimo pezzo, dove con semplici effetti di microfonatura Cerruti si inventa "Pierpaolo", mostruoso bambino figlio della borghesia per bene che spende e spande senza istigazione di valori: comparirà anche, anni dopo, nei notturni di Arbore. Infine, lo stile parlato della marcia, che troverà precedenti nei soli Squallor, si palesa in tutta la sua bislacca cialtroneria ne La Marcia Dell'Equo Canone, dove Cerruti chiama a raccolta case e casini prima di congedarsi col suo inconfondibile Buonasera: saluto di circostanza, dato che la band non ha finito qui di scandalizzare col suo piglio sboccato, e, perchè no, con una certa conoscenza musicale che farà loro ammettere più tardi, di aver sempre comunque fatto musica.

 

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