Quand’ero teenager, discretamente imbranato e guardingo con l’altro sesso, non potevo comunque fare a meno di andare in discoteca alla domenica pomeriggio. Non mi ci divertivo molto… per le ragazze ero buon amico, affidabile e spiritoso ma per niente “pericoloso” e “pirata”, requisiti che a quell’età sono spesso decisivi, o almeno lo erano fra le mie conoscenze, per far conquiste. Così le mie amiche chiacchieravano volentieri con me, ma poi tutte tendevano a farsi attaccare al muro e spomiciare da qualche mio coetaneo più fornito di autostima e coraggio.

C’era questo New Club che andava per la maggiore… Situato nel sotterraneo di un albergo sul lungomare, arredato alla bell’e meglio con sedili rigorosamente in similpelle zero traspirante e lampade dallo scarso wattaggio che lasciavano discreto buio in giro, la domenica alle quattro si riempiva come un uovo di quindici/ventenni più o meno brufolosi, più o meno vergini, più o meno a loro agio.

Il disc-jockey era Super, ovvero Superbone (e chi se lo ricorda il suo vero nome…), soprannominato così per una vaga somiglianza con un personaggio a fumetti del Monello. Ci dava dentro per tutto il pomeriggio missando l’uno via l’altro i 45 giri di Gloria Gaynor, Temptations, Donna Summer, KC & Sunshine Band, Barry White… ma il finale, ovvero gli ultimi due brani prima di spegnere l’impianto e mandare tutti a casa, era costituito sempre dalla stessa coppia di pezzi decisamente rock. Due canzoni non uscite come singoli, quindi Super era costretto ad abbassare la velocità dei piatti e piazzarvi sopra i 33 giri che li contenevano.

Il penultimo brano era sempre “The Mexican” dei Babe Ruth, una magnificenza, un capolavoro, un gusto pazzo ballarlo ogni domenica alle sette di sera. L’ultimo invece era “Don’t Think It Matters”, ed allora il long playing che girava sul piatto era proprio questo, con la suddetta canzone in apertura della seconda facciata.

Don’t Think It Matters” è un boogie, uno dei mille concepiti e registrati da questo storico gruppo britannico; ed è il miglior episodio che conosca di loro, meglio pure del celebre “Whatever You Want”, che gode di ben più alta memoria storica. Un R&R dal riff imperiale, infettivo, che però non percorre la canzone da cima a fondo e basta, perché si riempie di variazioni, di intelligenti trovate ritmiche, di trascinanti stop&go, di stranianti cambi tonali. Gli Status Quo l’avevano pensato ben bene l’arrangiamento di questo loro capolavoro, preferendo però altre cose più facili di questo disco per i singoli.

Così “Don’t Think It Matters” è rimasta merce rara dalle nostre parti (non così in Inghilterra, dove gli Status Quo hanno venduto più dischi dei Led Zeppelin) ed ancora provo affetto per Super che, con una sensibilità musicale evidentemente molto simile alla mia, l’aveva eletto come sigla di chiusura delle sue prestazioni dietro la consolle, permettendomi di conoscere e apprezzare questa perla nascosta.

Che dire del resto di quest’album del 1974? È degli Status Quo, quindi niente di eccezionale, boogie rock deciso e poco pretenzioso, ogni tanto qualche melodia memorabile e qualche schitarrata trascinante ma non tanto spesso. Fatto sta che posseggo un solo loro disco, della messe infinita prodotta a partire dagli anni sessanta. Ed è questo, perché come traccia 5 c’è “Don’t Think It Matters”.

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