Stati Uniti. Oklahoma. Flint City. Luglio di un anno ignoto.

Frank Peterson, 12 anni, viene stuprato con il ramo di un albero ed ucciso. I pubblici poteri individuano agevolmente il brutale assassino, ma la legge degli uomini - razionale e, perciò, fallace - inciampa, laddove 2 + 2 non fa sempre 4: non può essere ed è, che la logica vada pure a farsi fottere.

Del resto, King così esordisce «il pensiero si limita a conferire al mondo una parvenza di ordine, per chiunque sia abbastanza debole da convincersi che un ordine ci sia davvero» (C. Wilson, The Country of the Blind).

Inizio fulminante, con le prime 200 pagine che scuotono le viscere, proseguo sufficiente. Da altro punto di vista, scrittura senza fronzoli, ma che arriva; insomma non è jazz, siamo piuttosto dalle parti del rock.

In queste pagine il topos dell’irriducibilità al razionale del reale - ovvero, dell’ignoto che squarcia l’ordinaria periferia americana (l’atavica inquietudine che genera questa contrapposizione è la cifra del Re) - si mescola, quindi, con i meccanismi che smuovono il diritto punitivo, estremo baluardo eretto dallo Stato contro i mali che corrodono la società. Pare chiaro a King il dover essere dello ius criminale: è lo strumento giuridico più intollerante nelle mani dello Stato ed il suo impiego necessita di limiti; tuttavia, la quotidianità penalistica - alle prese con i suoi demoni - butta nel cesso gli opuscoli di quattro vecchi e rincoglioniti filosofi illuministi. Ora, nella caccia al mostro è sacrificabile la testa di qualche innocente, oppure accettare il rischio di lasciare libero il colpevole? Tertium non datur, benvenuti a Flint City, Oklahoma, Stati Uniti.

Da parte mia, «poniamoci la famosa questione: che daremo noi se apprendessimo che per la salute del popolo […] ci fosse in qualche luogo un uomo, un innocente, che è condannato a eterne torture? Noi vi consentiremmo forse, a patto che un filtro magico ce lo facesse dimenticare, a patto che non ne sapessimo più nulla: ma se dovessimo saperlo […] dirci che quest’uomo è sottoposto ad atroci supplizi perché noi potessimo esistere, che questa è una condizione dell’esistenza in generale, ah no, piuttosto accettare che nulla più esista, piuttosto lasciare saltare il pianeta […]» (S. Satta, Il mistero del processo, in Riv. dir. proc. pen., 1949, I, p. 288).

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