Premessa: il voto reale sarebbe 4,5, e sono d'accordo con chi vorrebbe un voto espresso in decimi, compresi i mezzi voti.

Recensione:
Torna a ruggire il "vecchio leone" della chitarra, protagonista della stagione d'oro dei Genesis, e solista ormai da 30 anni. Ogni volta infatti che si parla di Steve Hackett, il pensiero va quasi obbligatoriamente ai super-classici che continuano a far sognare tantissimi prog-fans e non, dimenticando che Hackett ha alle spalle qualcosa come 27 albums da solo, una serie interminabile di concerti, e un pubblico ridotto rispetto alle pletee genesisiane ma fedelissimo negli anni.
Hackett si è negli ultimi anni anche cimentato in vere e proprie opere di stampo classico, tra cui la recente "Metamorpheus", supportato da un'orchestra, la Underworld Orchestra, che ritroviamo anche il questo "Wild Orchids".
E, secondo alcuni critici, proprio questo ultimo lavoro, si pone a cavallo fra l'esperienza più tradizionalmente rock , e quella classica.
Sono in linea di massima d'accordo, sebbene ritenga che il repertorio di questo album sia fondamentalmente collocabile sulla scia del precedente "To watch the storms", ottimo album del 2003, con qualche richiamo al classico.
Di sicuro c'é da registrare (ancora una volta) la grande varietà stilistica delle composizioni di Hackett, agevolate dalla collaborazione attiva della band, di cui fa parte anche il fratello John, e a dimostrazione di ciò basti ascoltare la sorprendente "Down street" , una sorta di puzzle musicale in cui si incastrano hard rock, sequenze tipo colonna sonora di gialli polizieschi, e musica tipo Cirque du Soleil! E, a prosposito di colonne sonore, ditemi se l'iniziale "Transylvanian Express" non sembra proprio un commento ad un film drammatico..
Le fonti di ispirazione, come dicevo, sono molteplici: in "Waters of the Wild" è l'India a fornire spunti, ma non è il solito polpettone Buddha-bar...anzi è un brano vitale e coinvolgente; ancora l'oriente colora "Cedars of Lebanon" , ma la rilettura è più personalizzata.
In "To a close" l'atmosfera è da canto religioso, sebbene l'argomento sia molto "terreno", e va sottolineato come in questo album, Hackett sperimenti molto sulla voce, spesso filtrata, o comunque "trattata" elettronicamente.
Non mancano ovviamente i riferimenti ai Genesis: "A girl called Linda" ha un inizio simile a "A trick of the tail" (la canzone) , per poi dipiegarsi soavemente in parti jazzate, impreziosite dal flauto; ancora riferimenti genesisiani in "Set the compass" ma qui il discorso è diverso: innanzitutto è secondo me il pezzo più bello; si respira il clima di "Entangled" , i cori sono eterei, celestiali, la chitarra acustica sembra un'arpa....un incanto allo stato puro; io ci ho percepito anche i Pink Floyd di "Cirrus Minor"...magistrale!
Non mancano pezzi energici, come "Ego and Id", un bell'hard rock robusto con assoli da virtuoso, e "A dark night in Toytown" , in cui gli archi orchestrali danno un tocco baroccheggiante al ritmo in levare della batteria.
Hackett si cimenta anche in una cover: "The man in the long black coat" di Bob Dylan, su cui non mi pronuncio, non conoscendo l'originale.
"The fundamentals of brainwashing" invece sembra una citazione (involontaria?) ancora dei Pink Floyd, questa volta quelli di "High hopes" (unico pezzo decente del penoso "The division bell").
A "Wild Orchids" non assegno il massimo, perché su 17 brani, almeno nella edizione in mio possesso, qualche calo (fisiologico) c'é, ma siamo davvero ai confini del top.

Fa specie vedere un artista di tale levatura suonare per un'etichetta minore, e anche con qualche problema di distribuzione...ma per quanto mi riguarda, la sua carriera solista continua a procedere sempre nella giusta direzione.
Tanto di cappello, Steve!

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