Questo ben noto chitarrista losangelino ha sinora pubblicato tre album a proprio nome, tre buoni lavori che vanno ad arricchire la sua sterminata discografia capeggiata dalla quindicina di dischi fatti uscire con i Toto (gruppo nel quale è assurto ben presto a riconosciuto leader viste le energie profuse alla causa ed il preminente ruolo in fase compositiva nonché di richiamo spettacolare nei concerti), a cui sono da aggiungere alcuni progetti paralleli (ad esempio quello fusion dei Los Lobotomys) e soprattutto un'incredibile sequela di collaborazioni a dischi altrui, certo aiutato in questo dal fatto di vivere a due passi da studi d'incisione fra i più celebri e ricercati al mondo.

Steve Lukather non è un fighetto californiano pieno di soldi e di boria e di competitività dedito a musica paracula e patinata come ad esempio chi giudica superficialmente i Toto può a torto pensare. E' invece un uomo con coglioni molto grossi e un'esperienza musicale enorme e precoce, assicuratagli da una mente aperta, propositiva e umile che lo ha guidato prima nella fase di assimilazione dei suoi idoli e poi in quella di centrifugazione, fra cuore e cervello, di tutta la musica recepita come buona, di qualunque stile e provenienza fosse, per far poi uscire dalle sue dita il suo stile, il suo tocco, i suoi suoni che da tempo vengono esaltati e presi ad esempio da chi è dentro la musica. Dotato poi di una voce non eccezionale ma comunque discreta risulta pertanto essere uno di quei chitarristi virtuosi in grado di guarnire i suoi dischi solo con adeguate parti cantate, il che non guasta affatto data la facilità di tedio che può sovvenire all'ascolto di lavori rock interamente strumentali. La voce umana è strumento musicale ineguagliabile, il migliore, il più espressivo e simbolico dell'unicità di ciascuno di noi, tanto che qualsiasi parte strumentale od assolo finiscono per avere maggiore colore e sapore quando si può gustarli intercalati fra debite strofe e ritornelli.

"Candyman", secondo suo disco solo, uscì nel 1994 e contiene undici brani di cui appunto solo due di essi strumentali; altri due sono poi riuscitissime cover meritevoli subito di descrizione: Luke omaggia qui due grandissimi suoi colleghi il primo è Hendrix di cui viene ripresa la fichissima e funky/rockissima 'Freedom'. L'originale del meticcio di Seattle era assai psichedelico e pieno di chitarre svolazzanti, il nostro ripulisce e pompa ritmicamente il tutto senza comunque stravolgerne il senso, aiutato dal formidabile treno percussivo del suo compare (anche nei Toto) Simon Phillips una vera bomba, una Ferrari, una bestia quest'uomo che pure è mingherlino di aspetto ma viaggia dietro le pelli come una mandria di bisonti; nessun dubbio che Simon sia decisamente più a suo agio, o meglio più appariscente e godibile, in questo frangente rispetto a quando accompagna i Toto. Se volete sentire una grande, grandissima batteria, questo è il disco giusto. La seconda cover riguarda un pezzo ('The Bomber') che stava in un disco della James Gang di Joe Walsh chiamato 'Rides Again'. Anche qui si procede con lo stesso trattamento riservato a Jimi cioè vengono mantenuti partiture e ritmi, ma con densità e presenza di suoni decuplicate. Come l'originale il brano è diviso in due parti, la prima è un rockblues piuttosto essenziale e primitivo che però ben presto si evolve e si sublima nella seconda una riuscitissima coda strumentale a ritmo di bolero sul quale Walsh a suo tempo, e susseguentemente Lukather qui, dipingono arabeschi di slide guitar oltremodo gustosi. Che ne sentiate l'originale della James Gang oppure questa rivisitazione, è comunque grande rock. Fra le composizioni originali dell'album la gemma è un lunghissimo blues intitolato 'Never Walk Alone'. Steve declama il suo testo accompagnandosi con un suono reso filamentoso dall'effetto leslie e dal magistrale uso della leva del vibrato, poi schiaccia un pulsante della sua pedaliera, cambia suono ed esplode in un paio di soli di clamorosa sonorità e sostegno, pieni di anima (e di sana e solida tecnica di vibrato) alla maniera del grande irlandese Gary Moore, vero maestro di atmosfere come queste.

I due strumentali sono entrambi da segnalare. 'Party in Simon's Pants' è cofirmata dal batterista e ne ha ben donde: di performance su piatti e tamburi ne ho viste e sentite tante, questa le batte tutte nella mia classifica. Il gruppo comincia con un riffone basso/chitarra in 17/8 entro il quale il buon Simon si muove come una papera nel suo stagno, dominando il ritmo con precisione e tonitruanza, per poi stupire ulteriormente quando il ritmo si linearizza per gli assoli. Lukather ed il suo pianista ce la mettono tutta e mollano una di seguito all'altra due virtuosissime cavalcate fusion ma l'orecchio ha voglia sempre di star dietro a quel che combina la batteria, perché il crescendo di casse e piatti allestito dal fuoriclasse inglese è di assoluta strapotenza, un treno in corsa, un missile. E non basta perché poi torna il riff in tempo dispari e intorno a quello Phillips inanella una serie di break torrenziali, spezzando e ricostruendo il ritmo (17/8, ripeto) mille volte, colpendo tutto ciò che costituisce il suo strumento con un mix di veemenza, precisione, gusto e classe che alla fine suscita un unico possibile sentimento, l'ammirazione. L'altro strumentale è posizionato in chiusura dell'album dedicato al compianto Jeff Porcaro, batterista dei Toto fino alla sua improvvisa scomparsa risalente al 1992. 'Song For Jeff' esordisce con un lamento solitario di chitarra, suonata in assolvenza controllandone la manopola del volume, poi entrano in progressine ritmica e resto dei musicisti e ben presto tutto muta in una tipica jam session fusion, dinamica e solare in contrasto al mesto inizio forse a simboleggiare il superamento della tristezza e del lutto, verso nuovi orizzonti musicali e nuove esperienze. Per quanto riguarda il resto e senza ulteriormente approfondire, si può dire che è tutto ben suonato e cantato, che sia rock o pop o ballate un paio delle quali ricordano parecchio i Toto, d'altronde Lukather è la voce solista di quasi tutti i brani soft del gruppo.

Due sono le caratteristiche che rendono particolarmente gustoso questo disco: la prima è la varietà di stili, fra hard e pop rock, blues, fusion e ballate semiacustiche, cover e strumentali; la seconda è il fatto che le basi dei pezzi (assoli compresi, diciamo tutto escluso le voci) sono frutto di sessions collettive, tutta la banda è lì a suonare e a scambiarsi sinergie (una volta si diceva buone vibrazioni) come si incideva una volta. Non ne risente per certo la precisione e la professionalità delle esecuzioni, è tutta gente coi controcoglioni che ci mette un attimo ad eseguire la sua parte per un intero take senza la minima sbavatura e pure con encomiabile calore e grinta. Steve è un grande.

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