Sarà, ma il faccione in copertina del buon Steve non sembra affatto quello di chi ha trovato di nuovo il Sole, come annuncia il titolo di questo suo album del 2021. Pare invece che i suoi demoni circolino ancora nefasti in mente, in particolare quel deleterio attaccamento alla bottiglia.
Amo i Toto, uno dei nomi fra i più nobili quando penso alla musica degli anni ottanta, e stimo fortissimamente il loro chitarrista, questo musicista talentuoso, attento, aggiornato, appassionato, instancabile, accurato. So per certo che non farà mai dischi brutti, e infatti questo non lo è di sicuro.
Però… però stavolta prevale in me il senso critico, il (leggero) arricciamento del naso. Non è che mi aspettassi novità, nuovi suoni, stranezze… Lukather è perseverante nello stare sui binari di quei tre, quattro generi musicali preferiti e che gli vengono naturali, non c’è nulla di negativo in questo ma alla fine è la qualità dei contenuti, delle melodie e dei giri armonici, nel suo caso anche l’ispirazione negli assoli, che fa la differenza.
E allora in quest’opera siamo nello standard, nel sei e mezzo/sette, a dirlo con i voti. Il lavoro è registrato di getto, appena in otto giorni uno per ogni canzone, facendo affidamento sulla pazzesca professionalità ed esperienza del titolare e dei suoi colleghi musicisti coinvolti. Vi sono dunque otto canzoni fra cui ben tre cover, una dei Traffic, una di Joe Walsh ed una di Robin Trower. Le cinque composizioni inedite svariano fra un paio di roccaccioni intensi e profondi, un rock striato di funky molto Totesque, un virtuosistico ma sanguigno strumentale fusion, e infine l’immancabile ballatona robustamente romantica.
Tutto ok, la schiettezza e la voglia sincera di fare musica, la capacità di metterla insieme in quattro e quattr’otto con la gente giusta a collaborarvi sono evidenti ma… ma?…ma! Cosa non mi garba?
E’ che Steve Lukather è un musicista… scuro. La sua voce è scura, competente e decente, ma veramente scura, Dopo pochi pezzi viene a tedio, non regge la distanza di un intero disco. Mentre invece è perfetta nei Toto ad intercalare episodicamente gli squilli e i gorgheggi del frontman tenore di turno, sia esso Bobby Kimball o il povero Fergie Frederiksen o Joseph Williams. E il timbro della sua, peraltro fenomenale, chitarra è anch’esso… scuro, con quel suono impastato e lungo, sapiente ma nodoso, troppo disseminato di effetti fra l’uscita dello strumento e l’ingresso dell’amplificatore. Anche in questo caso, in ambito Toto vi è l’antidoto: il pianoforte dell’amico David Paich, soprattutto, e anche i sintetizzatori di Steve Porcaro: gente brillante, molto più solare, più “chiara”.
Tempi duri per i Toto, a proposito: Paich è giù di salute, il Porcaro superstite è in rotta perché la vedova di suo fratello Mike (il bassista, morto da una decina d’anni per SLA) ha citato i responsabili del gruppo (appunto Luke e Paich) per inadempienza negli emolumenti a suo marito… Lukather prosegue perciò a far musica da solista, ma non è la stessa cosa. No Paich, no Toto.
Ma è sempre un piacere seguire questo valente musicista, c’è limitata ispirazione, routine ma anche eccellenza e amore per la musica in quest’album.
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