Sarà per via della mia natura piuttosto solitaria e discretamente misantropa, ma credo che uno dei mali più grandi della contemporaneità, sia questa frenesia folle, inutile e stridente che ci impone, chi più chi meno, un sistema schizoide, malato, arido e tutt’altro che progredito. Frenesia nei rapporti umani, nel lavoro, con noi stessi, spesso accompagnata da bombardamenti visivi disturbanti e larghe dosi di suoni cacofonici ed inessenziali. Sempre più spesso ho bisogno di ritagliarmi uno spazio che sia solo mio; sempre più spesso sento il bisogno di silenzio; sempre più spesso ho bisogno di antidoti: uno dei migliori che conosca è Steve Roach.


Orafo tra i più eleganti e fantasiosi della ambient-music (e non solo) degli ultimi trent’anni, Roach ha cesellato, nel corso del tempo, gioielli di inestimabile valore servendosi (e modellandoli di volta in volta al suo percorso) sia di quella vena aurifera portata pienamente alla luce del sole da Brian Eno, sia di quel giacimento inesauribile di gemme elettroniche provenienti dalla scuola cosmica tedesca.


“Structures From Silence” è forse il primo dei suoi capolavori e, come suggerisce il titolo, si tratta di un vero e proprio compendio (diviso in tre lunghe suite) sulla potenza rigeneratrice e vivifica del silenzio in cui Steve, riesce a rendere plausibile l’apparente ossimoro di creare musica che abbia lo stesso effetto benefico e taumaturgico dell’assenza di suoni.


Con “Reflections in Suspension”, viene esplorata la quiete “terrestre” e, restando in dormiveglia, sdraiati supinamente in un boschetto “vergine”, veniamo cullati da un tappeto sonoro rotondo, uniforme e vellutato, in cui la lussureggiante e coloratissima natura, viene resa attraverso tinnii elettronici simili al ronzio ovattato di piccoli insetti e da “riccioli” di tastiera che sembrano essere petali di un ciliegio in fiore che poco a poco ci sommergono, in un’ indolente e lenta epifania dei sensi.


Il silenzio “siderale” ci viene portato dalla successiva “Quiet Friend”, in cui, grazie ad un rallentatissimo sintetizzatore, siamo in balia di un dolce rollio cosmico in una deriva infinita ed indefinita nel vuoto intergalattico.


La gigantesca title-track (28 minuti abbondanti) chiude il cerchio; sprofondiamo nell’abisso più insondabile e profondo che ci sia: noi stessi. Questo silenzio “mistico”, la cui struttura è un botta e risposta tra lentissimi riverberi alti e riverberi bassi, si ripercuote sul nostro “diapason interiore”, sprigionando onde energetiche che svuotano la mente e riempiono lo spirito. Un’ immane stasi del nostro essere e dei nostri sensi.


Disco prezioso e ricco di impercettibili sfumature, “Structures From Silence” è degno, secondo me, di entrare nella personale “sala del tesoro” di Steve Roach accanto a lavori, seppur molto diversi, altrettanto validi (“The Magnificent Void” e “World’s Edge”) o con alcuni dischi incisi con Robert Rich (“Strata”) e Vidna Obmana (“Well of Souls”). L’apice assoluto ed inarrivabile rimane forse “Dreamtime Return”.

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