“Niente è più reale del nulla.”
Samuel Beckett


Pochi artisti hanno saputo scandagliare davvero le profondità umane. Scandagliarle senza alcuna paura, senza alcun freno aprioristico; solamente inabissarsi e riportare quanto si è visto (o si crede di aver veduto), anche se scomodo, anche se disperato, anche se insostenibile.


Beckett è tra i primi che mi vengono in mente.


Testi che arrivano direttamente alle viscere, monologhi sbiascicati che tentano di comunicare l’incomunicabile, azioni inceppate e bislacche che provano a raggiungere l’irraggiungibile. Mettersi le scarpe, togliersi le scarpe; mettere gli occhiali, togliersi gli occhiali; lavarsi i denti, sciacquarsi la bocca. E poi la sequela infinita degli orridi verbi quotidiani: lavorare, pulire, pagare, comprare, sistemare…


Beckett è un’artista pericoloso; non si è mai accontentato ed ha saputo affondare nei meandri della palude esistenziale. Quello che riporta in superficie è terrificante: non solo noi veniamo dal nulla e finiremo nel nulla, ma la vita stessa è nulla. Non effimera, non minuscola, semplicemente nulla; un grosso zero zavorra i nostri passi ancor prima della nostra nascita ed impregna col suo odore ogni singola parola che pronunciamo, ogni minimo movimento che azzardiamo.


Anche Roach non si è mai accontentato; dopo l’apparente ossimoro di un concept-album sul silenzio, dopo un grandiosa immersione nei rituali magici primitivi, ecco “The Magnificent Void”. Il nulla.


Strisce di fumo, nere colonne esalate in lontananza da un battello a vapore nascondono porzioni di cielo; densi fasci oscuri, foschi, inquieti; si inerpicano ad altezze sovrumane e lambiscono la sublime angoscia di “Zeit”.


Droni colmi di promesse che mai si compiranno, speranze che affogano in acque oleose; echi di primitive paure dormono nel sottobosco della coscienza, mentre farfalle mai nate sono sepolte in crisalidi di frassino.


Talvolta, ombre informi danzano sulle pareti del passato; l’atarassia è scalfita; la pietra comincia a rotolare, il monaco comincia a dubitare ed il Tempio è sormontato da tempeste elettromagnetiche gravide di presagi.


E il nulla mi avvolge, mi sommerge, mi culla; e sento che devo ripartire proprio da lui, dal nulla.


Accogliamo il nulla che è dentro di noi, o meglio il nulla che siamo noi; eleviamoci poggiando il piede sul solo gradino che esiste davvero, esploriamo l’impossibile, scopriamo cosa c’è alla fine dell’arcobaleno.

Beckett aveva ragione! Il nulla è il minimo comune multiplo di tutte le nostre emozioni, la vera particella di dio, il reale telaio su cui si innesta ogni filamento di DNA.


Ed ora, spaparanzato sul divano, sento il nulla che incastra il ginocchio sul mio sterno e, bloccandomi, lo vedo piegarsi lentamente sul mio viso. Non fa nulla, non dice niente, mi guarda solamente negli occhi; mi fissa con ostinazione, io fisso lui e finalmente vedo. Il mio sguardo è il suo, il suo sguardo è il mio, il mio e quello di noi tutti.

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