Poche carriere sono state complesse, quasi convulse e, in alcuni casi, dispersive, come quella solista di Sting. All'inizio miscelava al pop-rock, dentro alla forma canzone, le sue influenze preferite, come il jazz e il folk inglese. "Bring on the night", l'album dal vivo del 1986, è forse la cosa più bella di inizio carriera, per la magnifica fusione tra rock e jazz, la bravura strumentale rimanendo sempre in un contesto canzone.

Poi, nel nuovo millennio: madrigali, album sinfonici, musical dedicati all'industria navale, e così via. E tanta, tanta noia.

Da qualche anno, fortunatamente, c'è la riscoperta dal vivo delle vecchie care sonorità, con il tour con Paul Simon e da solo.

Ed ora, finalmente, il nuovo album, seguito di "Sacred love" del 2003, ultimo vero album di canzoni vere ("The last ship" era una raccolta di ballate celtiche piuttosto noiose).

Nella forma, perchè nella sostanza è un disco davvero diretto, chitarristico, estremamente godibile, non banale.

Certo, il primo singolo è marchiato pesantemente "Police", ed anche il riff di chitarra che apre "Down down down". Ma a lasciare il segno sono i riff di "50.000" - una canzone sulla mortalità delle rockstar, uscita nel giorno della morte di Cohen, o quello ancora più sparato di "Petrol head", passando per l'arpeggio sofisticato di "Pretty Young Soldier".

Poi, certo, Sting si lascia sedurre dalle vecchie passioni: "Heading South On The Great North Road" sembra uscire da "The last ship" (noiosetta anzichè no). "Inshallah" sembra la figlia di "Desert rose", "The empty chair" potrebbe essere uscita dalla penna dell'amico Paul Simon. Ma il risultato finale è che "57TH & 9TH" è un album fresco, scorrevole, immediato, forse quello che ha queste caratteristiche più forti di tutta la sua produzione solista.

Album che si ascolta con grande godimento, soprattutto poi la voce, così particolare, inconfondibile e quel basso che ci fa tornare indietro nel tempo e battere i piedi a ritmo.

Bentornato. Finalmente.

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